È davvero possibile raccontare il denaro, divinità visibile e meretrice universale, inversione di tutte le qualità umane (trasforma il reale in irreale e l'irreale in reale) e dissolvitore di ogni vincolo, come recita un celebre passo di Shakespeare ripreso dal giovane Marx? La nostra narrativa recente, a parte le eccezioni – da Per dove parte questo treno allegro di Sandro Veronesi (padre e figlio portano una valigetta piena di banconote in Svizzera) a Stanza 411 di Simona Vinci («i baiocc. Gli sghei. I ghell. I danee. La grana…») e Il mio impero è nell'aria di Gianluigi Ricuperati (il protagonista si fa prestare soldi da tutti) – ha qualche resistenza a farlo.
Presenza pervasiva della vita quotidiana, pensiero sempre più ossessivo in tempi di recessione, motore occulto della maggior parte delle nostre azioni, il denaro sembra refrattario a una piena rappresentazione letteraria (diverso è il caso dei tanti romanzi con protagonisti broker e geni della finanza). Forse perché è un'entità astratta, troppo impoetica, inafferrabile. Eppure Sebastiano Vassalli accetta la sfida e decide di trattarlo frontalmente in Comprare il sole (Einaudi), scegliendo la forma della favola. E come ogni vero romanziere si mette a indagare “scientificamente” cause e effetti della eterna commedia umana. Quando Nadia Motta, 25enne di una piccola città alla ricerca di un impiego vince al super-lotto 21 milioni di euro, siamo subito curiosi di vedere in che modo la sua esistenza ne verrà destabilizzata. Non dice nulla alla madre (ex femminista storica, invadente e retorica), lascia il fidanzato (un “babbeo” impiegato in un supermercato, indebitatosi per l'acquisto della casa), si consulta con l'amante (professore universitario di sinistra, libertino verboso e opportunista), e su suo consiglio si affida a un avvocato che le farà perdere l'intera somma, in un finale “nero” di delitti e intrighi e suicidi (in ciò Vassalli non si discosta da un filone moralista, che fa discendere dall'attaccamento morboso alla “roba” un sicuro esito rovinoso, almeno a partire da Mastro don Gesualdo). I modi affabili, rassicuranti della favola fanno appena trasparire un fondo luttuoso. Vassalli si mostra efficace nel rappresentare la natura sfuggente, metafisica di una cosa pure così materiale come i soldi: luccicanti e odorosi nel deposito dove si tuffa Paperon de' Paperoni, ma anche ridotti ad astrazioni, a numeri che transitano misteriosamente nei conti correnti delle società, aprendo e tappando buchi. Alla fine quelli di Nadia restano sospesi da qualche parte tra cielo e terra, sembrano emanciparsi dalla loro losca fisicità nel mondo parallelo delle connessioni elettroniche, e si perdono fatalmente nel nulla. Anche se lo slancio di quell'incipit così avvincente – con la ragazza davanti al computer che verifica la vincita…– non viene sempre mantenuto. La lingua è abbassata al livello dei suoi personaggi: povera, referenziale, con i tic espressivi del gergo contemporaneo. Ad esempio c'è una insistenza esasperante sul modo dire corrente (proveniente dalla pubblicità) «il lato b» di qualcuno (dalla parte anatomica al lato nascosto della personalità maschile, sia esso la lentezza o l'amore). Qui ha una infinità di variazioni: «lato i» (l'imprevedibile, il non controllabile), «lato g» (gay), «lato s» (il lato stronzo del genere umano”)… In questa favola naturalistica l'autore ci informa poi meticolosamente, con molte parentesi, su tutto ciò che avviene dentro e fuori dei suoi personaggi. Una meticolosità un po' pedante, che nuoce al ritmo narrativo e a tratti ci fa pensare a un racconto dilatato. Inoltre usa la storia per sfogare privati malumori e insofferenze da inconciliato moralista: contro le femministe, contro la “controcultura” dei centri sociali (il movimento dei «Disoccupati stanchi»), contro le mode più sciocche (i diminutivi dei nomi femminili: Tizzi, Dany, Symo…), contro una tipologia francamente odiosa di intellettuale di sinistra (Alessandro, forse il peggiore di tutti: libresco e finto-saggio, mollemente cinico, al quale lei dirà «ma dove sta scritto che voi siete migliori e più intelligenti dei ricchi?»).
Vassalli non intende fare l'esplicito elogio di una povertà decorosa, come hanno fatto in passato alcuni nostri grandi scrittori (da Elsa Morante a Bianciardi, da Pasolini a Parise), consapevoli che, come dice qui la ex femminista «una società dove tutto si fa con i soldi e per i soldi è destinata a diventare sempre più violenta». Non si cura di messaggi pedagogici, come pure troviamo nel racconto più bello di tutti i tempi sul denaro, La cedola falsa, di Tolstoj. Ma ha il merito di trasmetterci la vertigine nichilista dei soldi (Nadia muore per incontrare finalmente il Signore dei Saldi e dei Soldi: beffardo happy end), che appunto confondono le qualità naturali (Marx), dissolvono il confine tra realtà e allucinazione, tra veglia e sogno, tra vita e outlet, ci illudono di poter comprare il sole e la felicità (perciò, forse, bisognerebbe sempre trattarli come qualcosa che non ci appartiene veramente…). Ha poi il pudore di fermarsi di fronte all'ultima, innominabile verità: la ricchezza – ovvero «il sogno di tutti gli esseri umani che vivevano su questo pianeta» – è illusione e maschera di altro, ma non sappiamo bene di cosa (di un bisogno di assoluto? di una religiosità stravolta? del nulla?). Infine ricorda che il diritto al benessere, benché sacrosanto, non si capisce mai chi dovrebbe garantircelo. A volte la pagina è gravata dalle sue idiosincrasie e personali ossessioni (il suo lato “i”?), ma anche in ciò Vassalli si rivela scrittore ruvidamente autentico.
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