Ci sono un'infinità di equivoci intorno a cosa sia la poesia. Una volta, circolava l'idea – anche tra i letterati - che l'andare a capo, fare una riga corta, fosse fare una poesia. Altra idea era quella della rima: parole che, in qualche modo, finiscono con un'assonanza fanno una poesia, oppure si pensava bastasse contare le sillabe, o altri fattori tecnici. Se la poesia fosse questo, sarebbe sufficiente fare una cattedra di poesia: si sfornerebbero poeti allo stesso modo in cui si sfornano ingegneri. Non è così. Anzi, la maggior parte dei poeti non ha frequentato le università e, soprattutto, le facoltà di Lettere. È interessante: pensiamo, ad esempio, a Montale, che era ragioniere, a Quasimodo, che era geometra.
Questo la dice lunga su come non sia possibile “insegnare” la poesia, e come la poesia - al contrario - tema molto il soverchio del troppo, l'eccesso di erudizione, «lo spavento della letteratura». Quante volte ho sentito dire «È già stato detto tutto».
La poesia è qualcos'altro. È un movimento che attraversa l'uomo: scrivo movimento perché «emozione» nasce da «moto ». Non sempre i moti attraversano la coscienza, a volte qualcosa avviene dentro noi e lo riceviamo attraverso ì sensi, o il «cuore», la percezione che più strettamente chiamiamo emozione. Un mio amico ha detto una bellissima cosa. In un'intervista gli ho chiesto cosa fosse l'amore e ha risposto «L'amore è un movimento. L'odio è il suo contrario, perché è un ostacolo». Questo è importante, perché vuol dire che il movimento, soprattutto quando è d'amore, lo proviamo tutti; tutti - chi più, chi meno - in un certo momento abbiamo bisogno di esprimere questi moti che ci attraversano, e sentiamo questa necessità in modo tanto più forte quanto più questi moti sono inconsci, perché quando riusciamo a farli arrivare alla coscienza e a tradurli attraverso la mente in qualcosa di pratico o di razionale, ecco che allora ci acquietiamo dentro la spiegazione che riusciamo a dare.
Invece, quando questo moto non arriva alla coscienza, ci inquieta. Non sappiamo perché. Così l'innamoramento è il momento che ci fa vedere più chiaramente. Però ci sono tante cose nel movimento d'amore, non c'è solo l'oggetto o il soggetto del nostro amore. Quando ci innamoriamo portiamo dentro di noi le nostre debolezze, i bisogni di cui non siamo consapevoli, molti elementi che, a volte, non hanno niente a che vedere con l'oggetto d'amore. Tuttavia, in quel momento, tutti sentiamo il bisogno di scrivere, di dire. Una grande poetessa, Marina Cvetaeva, ha detto una cosa decisiva: «la poesia è qualcosa, o qualcuno, che dentro di noi vuole disperatamente essere». Rispetto alle considerazioni precedenti abbiamo già fatto un salto, perché esprimersi ed essere sono due cose diverse. C'è il bisogno di esprimersi da una parte, ma questo presuppone un essere. Qual è quell'essere che vuole esprimersi? Non è il nostro io consapevole, ovvero quello che siamo abituati a considerare il nostro io (ci facciamo un'immagine di noi in rapporto agli altri e a noi stessi e la chiamiamo «io»).
Freud diceva che l'io è un incidente, che è l'accumularsi abituale di un punto di riferimento dentro di noi e questo punto di riferimento lo scegliamo fra tanti, ma non è detto che sia quello «l'io». Diciamo che l'io sottostà a un essere. Chi siamo noi? Quando si è bambini siamo molto vicini al nostro essere; il bambino agisce, tanto più è piccolo, non con una forte nozione del proprio io, ma del proprio essere. In questo senso la Cvetaeva diceva che «qualcosa dentro di noi vuole disperatamente essere ». Perché dando credito al nostro io finiamo per soffocare il nostro essere, lo mettiamo da parte e facciamo sempre riferimento a questo punto significativo che è poi il nostro modo abituale di fare. Questo lo capiamo quando entriamo davvero in un rapporto profondo con noi stessi, quando le abitudini vengono a mancare, arrivano dolori troppo profondi, viene sconvolto il nostro modo usuale di guardarci e di vederci. Quando si dice «sono in crisi», significa semplicemente che è l'immagine che è in crisi, è il proprio «io» che è in crisi. Nei Vangeli, infatti, gli «io» si modificano, perché sono tanti: sono legione.
La poesia è quel moto che nasce dal nostro essere. Il mezzo che usa è la parola. Facciamo qui un altro passo, analizziamo la tecnica. La prima tecnica che usiamo è la lingua (se fosse pittura, il mezzo sarebbero i colori, che non sono sette come ci dicono, ma sono infiniti); è nel rapporto dell'essere con il mezzo espressivo che nasce “lo specifico” del mezzo. I grandi poeti, che hanno anche scritto e riflettuto sulla poesia, dicono tutti una cosa: fondamentale è lo stupore che il poeta prova di fronte alla propria espressione. Il poeta non sa quello che scrive. Non bisogna credere di dover imparare a scrivere ciò che si pensa, o quello che la propria coscienza pensa. Ci si deve solo esprimere in relazione al proprio essere e non al proprio abituale io cosciente. Quando il poeta si esprime è il suo essere inconscio, attraverso il mezzo, che rivela ciò che lui non sa,che non cade sotto la sua padronanza, gli rivela quante funzioni si accumulano dentro l'essere senza che ne abbia coscienza. Ecco allora perché si ha lo stupore dell'artista davanti al proprio fare.
Si parla tanto delle funzioni della poesia, ma la poesia non ha le funzioni che le si attribuiscono - ideologiche, pratiche, eccetera - lapoesia ha una funzione forte e importante: rivelare l'essere, e rivelare il rapporto che l'essere ha con il mondo, con gli altri. Perché i Greci chiamavano la poesia il «fare»? Perché è proprio un fare: è un operare su se stessi. Non solo si disvela il nostro essere, ma approfondisce il rapporto fra la nostra coscienza e il nostro essere. La poesia, quindi, è una delle arti che opera sulla materia. Gli alchimisti dicevano che, se si muove una sostanza in un bicchiere, il continuo mescolare modifica le sostanze e, nello stesso tempo, trasforma anche colui che fa. Questo è uno dei grandi effetti del fare artistico. Non solo si porta alla coscienza tanta parte di noi, ma si cambia noi stessi, si cambia il rapporto fra noi e la profondità di noi. È quello che chiamiamo intuizione. Einstein dice che non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione, E l'intuizione non la facciamo noi, ma è possibile nel rapporto simpatetico con l'esperienza. La poesia è dunque uno dei grandi mezzi per raggiungere con la “coscienza” il nostro proprio essere. È un cammino, una strada, sulla quale occorre pazienza e perseveranza. Goethe diceva «il genio è pazienza», e lo diceva anche in questo senso.
Io sono arrivato a scrivere poesia che avevo già quarant'anni. Nel '70-71 ho vissuto un'esperienza del fare poesia molto interessante per me, perché l'ho vissuta in maniera molto profonda e l'ho vissuta lavorando tantissimo, circa 14 ore al giorno. Il lavoro è una delle condizioni necessarie all'imparare a scrivere. È come il falegname con la sega, il contadino con la falce, che non sono andati a scuola, ma hanno acquisito quella naturalezza nell'uso dei loro strumenti attraverso la pratica continua, il lavoro - appunto. Bisogna lavorare, sbagliare, lavorare ancora, e più si lavora più si affina il mezzo, non solo la mano che fa, ma anche la nostra interiorità rispetto al mezzo. Tenere il rapporto fra sé e la parola è un lavoro continuo. Non accontentiamoci di una frase qualsiasi, di frasi convenzionali (e quanto più si è intellettuali, tanto più si usano frasi convenzionali). Leopardi assicura che è meglio ascoltare il popolo quando parla, e ciò per due squisite ragioni; una: che la parola del popolo è molto più vicina alla natura; due: che è una parola del tutto illogica, del tutto fuori dalla razionalità, è una parola che nasce dentro le emozioni del vivere. La parola popolare è lontana dalla chiacchiera, anche dalla chiacchiera del popolo, che pure esiste. Il popolo quando è ubriaco, o sotto emozione, dice delle cose straordinarie, inventa anche la lingua, perché, in quel momento, è libero.
Invece noi usiamo la parola per la pratica della vita e ci pare che, come la usiamo per la pratica, la possiamo usare anche per il fare della poesia. Non è così: la parola pratica della vita esige una convenzione, la poesia esige emozione. Il poeta deve sapere sempre mettere in relazione la propria emozione, il proprio moto, con la parola che usa. E siccome il moto nasce dalla profondità dì noi, deve saper mettere in relazione la propria interiorità con la parola. È questo rapporto stretto che fa il valore dell'espressione, il valore del «dire». Altrimenti entriamo in un altro campo, che non è più quello della creatività e dell'arte, ma è quello della convenzione del vivere la vita pratica. Ci sono delle persone che, fuori dalle convenzioni, non sono neanche più capaci di parlare, sono abituate così, a non andare mai più in là dei luoghi comuni. Questo, alla fine, impedisce loro di capire, anche solo di capire, e di entrare in un rapporto con se stessi e con il mondo che non sia quello delle convenzioni. L'abitudine a stare attenti alle parole ci libera da molti impedimenti, e anche dalla zavorra delle cose morte che sono intorno a noi e delle vite morte che parlano intorno a noi. La parola usata sciattamente fa sciatta la nostra vita. La fa occasionale. E quindi, il lavoro sulla poesia è un lavoro sacrosanto, importantissimo, un lavoro che ogni uomo dovrebbe fare, perché - senza accorgersene - ogni uomo un poco muore
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