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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2015 alle ore 08:14.

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Vent’anni fa veniva impiccato Ken Saro -Wiwa, scrittore, poeta, imprenditore, attivista ogone. Un omicidio di Stato contro chi voleva proteggere dalle fughe di petrolio il delta del fiume Niger, da secoli la casa della sua gente: pescatori, agricoltori, allevatori ormai in balìa dell’industria estrattiva, e far sì che un po’ della ricchezza di quella terra arrivasse anche a chi l’abitava. Contemporaneamente esce in Italia il primo libro di sua figlia Noo (si pronuncia gnoo e - ironia della sorte - in un’altra lingua nigeriana, il khana, significa greggio). Quando fu ucciso lei aveva 19 anni.

«È arrivata la piaga delle piattaforme petrolifere e altra morte per i terreni coltivati e per i santuari dove vivono i pesci, e quelle eterne fiamme che trasformano il giorno in notte e avvolgono la terra in finissima fuliggine…», scriveva il padre. «Innumerevoli fuoriuscite di greggio e combustioni continue avvelenano la terra e impoveriscono i fiumi delle loro riserve di pesci. Pratiche contadine vecchie di secoli sono state sconvolte, aumentando il numero di disoccupati e la loro frustrazione», annota la figlia, spiegando: «Mio padre cercò di affrontare il problema con la nonviolenza attraverso il suo “Movement for the Survival of the Ogoni People” (Mosop), che portò avanti una campagna per migliorare l’ambiente e assicurarsi che i gruppi etnici del Delta ricevessero la loro parte di profitti. Dopo la sua morte, nel 1995, numerosi gruppi militanti, principalmente di etnia ijaw, adottarono un programma politico simile ma raggiunsero lo scopo sequestrando i dipendenti delle aziende petrolifere, sabotando gli oleodotti e obbligando le compagnie a pagare in cambio di “protezione”. (...) Queste bande fanno parte di un mondo torbido in cui criminalità e politica sono intercambiabili. Un minuto prima combattono il governo per il “controllo risorse” e un minuto dopo collaborano con politici e poliziotti corrotti per mettere in piedi un traffico di armi e joint venture per il bunkeraggio illegale (che implica spillare petrolio dagli oleodotti e venderlo sul mercato nero locale e straniero)».

Vent’anni dopo l’assassinio di Ken, persino la sua battaglia è stata trasformata in uno sporco business.

Raggiunta al telefono, Noo Saro-Wiwa, che è cresciuta e vive in Inghilterra, non si fa sopraffare dall’amarezza: «Oggi almeno nel mondo c’è più consapevolezza, in molti sono a conoscenza di quel che è accaduto. Inoltre è stata riconosciuta la responsabilità legale delle imprese petrolifere in caso di inquinamento. Questo credo sia il lascito di mio padre. Tuttavia, anche se un report delle Nazioni Unite ha stabilito che il Delta deve essere bonificato e che il governo deve supervisionare i lavori, niente è ancora stato fatto. È molto difficile che il governo agisca, compia il suo dovere, questo è uno dei gravi problemi della Nigeria», spiega con tono pacato.

Cerchiamo di farle perdere il suo britannico aplomb chiedendole cosa ne pensa del fatto che i 10 milioni di barili di petrolio che hanno inzuppato le terre e avvelenato le acque del delta del Niger sono stati risarciti dalla Shell con 15 milioni di dollari versati alla famiglia di Wiwa e altri 240 milioni di contributi allo “sviluppo” delle comunità del luogo, mentre BP ha già pagato agli americani 20 miliardi di dollari e ne dovrà sborsare quasi altrettanti per i danni causati dai 4,2 milioni di barili fuoriusciti nel Golfo del Messico nell’incidente di Deepwater Horizon. «Mi disturba constatare che misera compensazione abbiamo avuto». E aggiunge con la voce che si scalda appena: «Senza considerare che nel Delta la gente dipende ancora moltissimo dall’ambiente per la sopravvivenza. Il rimborso è patetico e riflette la differenza delle due democrazie: negli Stati Uniti Obama può far valere i diritti dei suoi cittadini nei confronti delle aziende petrolifere, in Nigeria invece sono queste ultime che controllano il governo. Nonostante il suo potenziale, la sua ricchezza, il Paese è servo delle multinazionali».

Ma non si deve pensare che In cerca di Transwonderland sia un testo dedicato alla memoria e all’eredità di Ken. È un libro di viaggio - in un Paese che turistico non è affatto - interessante, appassionato e insieme distaccato (forse anglonigeriano, o forse frutto di una saggezza che i fatti della vita han reso precoce) e soprattutto pieno di humour. Il trovarsi a seguire le orme di suo padre - denunciando lo sciovinismo etnico e l’onnipresente corruzione che porta al paradosso per cui in un Paese traboccante petrolio la gente non riesca neanche ad avere la luce e l’acqua - è stato accidentale: «mi piaceva scrivere e viaggiare, ho pensato di mettere insieme le due cose. Poi mi sono resa conto che la scrittura poteva essere usata come una forma di attivismo “soft”».

Dopo aver a lungo visitato il resto dell’Africa Noo decide di affrontare il Paese che da bambina detestava perché il padre la costringeva a lasciare l’ordinata Inghilterra per istruttive vacanze nella bolgia torrida e assordante della madrepatria e che da un giorno all’altro, senza processo, senza nemmeno informare nessuno, aveva impiccato Ken. Non vi aveva più messo piede, se non per riportare le ossa di suo padre che la famiglia ottenne solo nel 2005. L’arrivo di queste è descritto in un episodio toccante e insieme gentilmente dissacrante, in cui i figli tirano fuori dalla carta da giornale lo scheletro, ricomponendolo grazie all’aiuto dello zio medico e, accortisi che al cranio mancavano due incisivi, vi ci infilano la pipa per ricordarne il sorriso familiare.

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