Mentre si indugia sui diritti, in attesa di unioni civili, in tempi di nozze americane gay e invece di sentinelle italiane, in piedi e sedute, molto attive, ecco un ripasso di filmografia italiana rurale e “prude” oppure invece politicizzata, per capire che in un necessario rimpasto di governo i diritti e le Pari opportunità andrebbero senz'altro affidate a una riserva della Repubblica come Renato Pozzetto, sdoganatore di omosessualità nell'unica forma di letteratura condivisa che ci sia stata in questo Paese dopo l'opera lirica, cioè la commedia all'italiana.
Prima di lui, il diluvio. Se De Sica rifiutava il ruolo del capocomico nei Vitelloni (1953) perché imbarazzato e impossibilitato dall'idea di fare l'anziano daddy che ci prova con Leopoldo Trieste, in un abbordaggio di provincia sul moletto adriatico in tempi pre-Grindr, l'omosessualità anni Cinquanta sul grande (il piccolo non funzionava ancora, in Italia) schermo era limitata a un fenomeno soprattutto balneare, con la prima trans d'Italia, per nemesi gaddiana (nel senso di Eros e Priapo) Giò Stajano, discendente di gerarchi, che profetizzava nel finale a Fregene della Dolce vita: «Il 1965 sarà tutta una depravazione completa». Mentre sulla Aurelia Gassman e Trintignant scorrevano tra battutacce (il fattore Occhiofino, cioè finocchio, nel Bildungsroman tirrenico) nel Sorpasso (1962), su Men la stessa Stajano componeva importanti reportage da spiagge raccontando usi e costumi «diversi per allora», da Viareggio all'Argentario.
C'era poi la versione Schengen: lo stesso anno, bastava prendere “il letto” da Centrale o Termini per capire che a Parigi era tutto già diverso, e Franca Valeri alias la prostituta dal cuor d'oro Delia lo prendeva, e scopriva l'esistenza dei cinesi e del fratello gay in Parigi o cara (1962) di Vittorio Caprioli («Ma che sei tinto?» «Sì». «Ma che sei…?» «Sì»). Mentre con lo stesso titolo nello stesso anno Arbasino cercava sugli elenchi telefonici a Parigi Céline e Mauriac, e aveva fatto le sue gite a Chiasso da un po'.
Oppure, esiliata all'estero l'omosessualità italiana, qui da noi era soprattutto un impedimento per rovinare carriere democristiane; mentre il nostro uomo di Stato più elegante e sartoriale ed europeista, Emilio Colombo, pare dicesse «non faccio che pensare a te» ai camerierini veneti del Toulà (che rispondevano con Realpolitik «pensi piutosto al'Itaglia, ecelènsa»), carriere di sopra e sottogoverno rischiavano reputazioni di partito ben avviate: ecco Ugo Tognazzi nel Complesso della schiava nubiana, 1965 (regia di Franco Rossi), in cui un integerrimo deputato molto mattarelliano, tra angherie da spending review alla moglie pluripara e voti alla Madonna viene poi sorpreso incongruamente in un “balletto verde”, così si chiamavano i “raduni” di allora, tra antiquari di provincia. E corniciaio era Tognazzi poi protagonista di Splendori e miserie di Madame Royale (ancora di Vittorio Caprioli, 1970), in epoca pre-Caitlyn Jenner, e poi ci sarà naturalmente Il Vizietto (1978), già da una commedia di successo, con una famiglia molto gay in cui irrompe un figlio avuto da una relazione etero, con un ribaltamento moderno per i tempi.
Sottotraccia a questi progressismi, il seriale regista Sergio Martino diffondeva le peggiori battute della commedia all'italiana, in un mondo di capitaline di provincia, piccoli imprenditori, amanti sui tetti, onorevoli in città. «A me mi hanno rovinato i mormoni, ho il novanta per cento di mormoni femminili», dice Lino Banfi in La moglie in vacanza... l'amante in città (1980), in cui Banfi, improbabile maggiordomo pugliese in una casa assai signorile di Parma, si finge gay ma poi assalta Barbara Bouchet tra cornici d'argento e pellicce, e la Bouchet dirà poi al suo amante Tullio Solenghi «mi lasci qui in balìa di un culattone con la crisi di rigetto».
Anche in Spaghetti a Mezzanotte (1981), sempre di Martino, Lino Banfi alias avvocato Lagrasta deve far finta d'essere omosessuale per nascondere la sua tresca con la moglie di un severo giudice, in uno scenario da Hollywood Party in cui la modernità di marmi e pulsanti, con dispositivi e passerelle e piscinette aspirazionali in una villa torinese delle più affluenti, contrasta un po' con la comicità becera. Il 1981 sarà poi l'anno trionfale di Vieni avanti cretino, col suo inopinato «benvenuti a 'sti frocioni» di stornelli micidiali affidati sempre a Lino Banfi qui in versione commissario – e venir su in quegli anni, con battute che poi passavano naturalmente nel lessico, non era bello, non era comunque facile.
Poi arrivò Renato Pozzetto. Il nostro Bill Murray, a riscattare tutti come protagonista dell'italian gay movie. In Ricchi, ricchissimi... praticamente in mutande (1982) con una sceneggiatura forse supervisionata dalla Cgia di Mestre, Pozzetto impersona il piccolo imprenditore Alberto Del Prà, alle prese con la crisi della piccola e media impresa e col calo della nautica, e che vuole convincere la moglie Edwige Fenech a darsi a un emiro arabo in cambio di importanti commesse per yacht. Ma poi si avrà il classico ribaltamento quando l'emiro, dotato di harem tutto-boys come nemmeno Lele Mora in Costa Smeralda, esprimerà una preferenza inattesa; e Pozzetto, convinto dalle sue maestranze con spirito da co-gestione merkeliano, dovrà cedere (un monito importante alla riforma delle relazioni sindacali, qui, anche, per il premier).
Ma già tre anni prima, in La patata bollente, 1979, il film più politico della fase gender di Pozzetto, regia di Steno (sull'onda lunga del Vizietto), ecco una storia di minoranze Pd che forse andrebbe fatta vedere a Renzi. Bernardo Mambelli è un operaio milanese di una fabbrica di vernici con la passione per il pugilato. È soprannominato “il Gandi”, è militante del Pci, e in una sera di tregenda ricovera a casa l'omosessuale Claudio (Massimo Ranieri) picchiato dai fascisti. Di lì, una serie di equivoci porteranno il Partito e la fidanzata (Edwige Fenech) a credere che il Gandi sia diventato gay; il Gandi viene spedito in Unione Sovietica per allontanarlo dal pericolo della decadenza borghese, ma quando tornerà, non solo non farà autocritica, ma troverà il suo appartamento ridecorato nel più puro stile inferior decorator da Claudio. Altro scandalo, e la decisione eclatante, con un tango disintermediatore alla Festa dell'Unità.
Un Tango diverso scritto appositamente da Totò Savio, leader degli Squallor, diventato poi simbolo per il movimento Lgbt, inno ufficiale del gay pride nazionale a Bologna nel 2008 («Chiudi gli occhi se vuoi/ questo è un tango diverso/ balla meglio che puoi è un tantino perverso/ tango languido e sia contro l'ipocrisia/ dare scandalo è l'unica via»).
Il tango risolve sempre molte situazioni quando si vogliono filmare dei gay in Italia: ecco un fondamentale Tango delle capinere, ballato cheek-to-cheek da Pozzetto e Leopoldo Mastelloni in Culo e camicia (1981), film meno politico, ma già siamo nella fase del riflusso. Renato (Pozzetto) e Alberto Maria (Leopoldo Mastelloni) formano da dieci anni una coppia collaudata: un giorno però Renato, dopo un incidente, conosce la fotografa Ella e i due si innamorano. Ci sono diverbi («Truciolone, hai preso tu la mia crema da notte?», chiede Mastelloni in camicia da notte vaporosa a Renato Pozzetto in kimono. «Non ne ho bisogno, ho la pelle come una pesca». Segue diverbio: «Donna rugosa sempre virtuosa». Pozzetto: «Oppure, schifosa»). Ma Pozzetto con capello gelatinato ricama fazzolettini con le iniziali del consorte, come in un Francesco Vezzoli ma con molto anticipo.
L'appassionato tango tra Pozzetto in smoking e Mastelloni in camicia da notte vaporosa è poi quello del 1928 di Cesare Andrea Bixio, compositore molto più importante del patriota e zio Nino in quanto a formazione di coscienze e miti nazionali: autore di Parlami d'amore Mariù, Portami tante rose, Violino tzigano, Mamma, Bambina, Vivere. Qui, però, un antico canto che ammicca al tema della prostituzione, in codici fascisti: «Laggiù nell'Arizona, terra di sogni e di chimere, se una chitarra suona cantano mille capinere. Hanno la chioma bruna, hanno la febbre in cuor, chi va cercar fortuna lì troverà l'amor».
Ma privato non è più politico, sono gli anni Ottanta, e non varrebbero più i temi di Patata bollente («Sai, Claudio, questi stronzi pensano che io e te…», dice il Gandi, alla Festa dell'Unità. Mentre il consiglio di fabbrica lo sanziona: «Può un candidato andare contro la morale popolare?»). Piuttosto, ecco il precariato, le donne in carriera, la proprietà intellettuale.
In Mani di fata (1983, di Steno), Pozzetto è un ingegnere navale che non trova lavoro, nonostante un brevetto per una casa galleggiante, ed è costretto a fare il domestico presso una contessa degli elicotteri interpretata da Sylva Koscina, con Maurizio Micheli che lo insidia e spinge al capello platino. Nel frattempo, la moglie di Pozzetto, Eleonora Giorgi, donna in carriera, è insidiata a sua volta da una superiora femmina. Tutto si risolverà nel migliore dei modi, coi gender e i ruoli ristabiliti, quando Pozzetto riuscirà a piazzare il suo brevetto e a comprarsi così una casa in Velasca.
E se il tema delle nuove urbanizzazioni già compariva in un film senza Pozzetto però notevole, Sessomatto del 1973 di Dino Risi, col migrante Giancarlo Giannini a scoprire un fratello diverso a battere in viale della Liberazione, sotto il grattacielo della Bank of Tokyo-Mitsubishi UFJ, oggi all'ombra del Diamantone, Pozzetto rafforzerà poi la sua dimensione di coscienza nazionale gay in Fico d'India (1980, di Steno). Qui, ecco una serie di equivoci da strapaese dovuti alla convivenza coatta tra un sindaco protoleghista (ma il film è girato a Bracciano) e un playboy locale, Aldo Maccione, che insidia le donne del paese. Quando Maccione avrà un infarto e sarà costretto a letto con Pozzetto in calze a rete si scateneranno le ire di Gloria Guida.
Nel 1981 invece c'è Nessuno è perfetto, remake bergamasco di A qualcuno piace caldo, ancora di Pasquale Festa Campanile, in cui Pozzetto fa un piccolo industriale del vino rimasto vedovo, vessato dalla suocera, che si innamora di Ornella Muti trans. Tra tagli a enti locali, primi sentori di devolution, federalismo in fieri, c'è tutto. Ma soprattutto c'è sempre lui, Pozzetto, oggi celebrato settantacinquenne. Diamogli le Pari opportunità, potrebbe benissimo lavorare dagli uffici del Ministero del Turismo a Monza che la Lega aveva voluto, oggi deserti. Oppure, come si faceva un tempo nell'Italia ottocentesca e dinastica, intitoliamo all'artista i suoi luoghi. Come “Torre del Lago Puccini”, attorno alla villa toscana ove il Maestro componeva le sue Turandot e Tosche, oggi distretto defunto del turismo gay emigrato a Mykonos. Le bellezze naturali non mancano, anche sul Lago Maggiore. Ci sono spiagge e aria pulita. E “Laveno Pozzetto”, del resto, suona meglio o uguale di Laveno Mombello.
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