Cultura

Arezzo, la crisi e la bellezza della città dell’oro

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Arezzo, la crisi e la bellezza della città dell’oro

«Molti dei nostri imprenditori orafi sono venuti dal niente, sono ex operai che si staccano dalla azienda grande, aprono una piccola fabbrica e vanno avanti, ma la pensano tutti allo stesso modo: il mio figliolo non voglio che lavori qui, deve andare a giocare a tennis, deve diventare campione di calcio, se vuole disc jockey, in fabbrica no, qui ho lavorato io, qui mi sono sporcato le mani io, il mio figliolo deve fare un’altra vita e se non ce la fa con gli studi c’è un istituto privato in città dove paghi e prendi il diploma di ragioniere.

Nel momento più buio della crisi, qui ad Arezzo, sono mancati i trentenni e i trentacinquenni, abbiamo pagato la crisi della seconda generazione, il classico problema dell’arricchimento, per cui acquisti la Ferrari o la Porsche e le tieni nel garage a Firenze, fai la gara a comprare quella più bella, ma non ti preoccupi di seguire e motivare i tuoi figli. Non è tutto così, ora è un po’ cambiato, molti hanno capito l’errore e hanno rimandato i figli nelle scuole normali, speriamo che non sia troppo tardi». Siamo seduti in otto intorno all’ultima delle fratine della Buca di San Francesco, nel centro storico di Arezzo. Gianfranco Duranti, lo sguardo di chi ne ha viste tante e la mimica espressiva degli aretini, parla tutto di un fiato circondato da sguardi di assenso, non si stanca di ripetere che questa è comunque una terra benestante, ha un debole per Carducci e si compiace di citarlo («Basterebbero gli aretini per fare grande l’Italia nel mondo, abbiamo ragazze e ragazzi bellissimi»), ma vuole spiegare perché l’ex città dell’oro vive la sua stagione di massima crisi, perché la banca della città è commissariata, perché si sono persi pezzi importanti della sua manifattura, ma si vive bene comunque, sembra tornare la voglia di riprovarci e di correggere gli errori del passato recente, si continua a respirare l’aria delle cose genuine, di una cultura fatta di arte, amore e piaceri.

«Bringoli con le briciole e Tortello del casentino con il pecorino “ignorante”, qui ci vorrebbe ma faccia lei» mi dice Mario che della locanda è il padrone, anima e cuore, editore di libretti vernacolari per gli amici, cuoco per tutti, sempre sorridente e una gran voglia di stupire. Mi accorgo che stiamo calpestando il “pavimento” di una stalla etrusca, mi guardo intorno e vedo arte e storia che si mescolano con i tavoli di legno e ne fanno un tutt’uno. Qualcuno mi fa segno di girarmi: scopro alle mie spalle l’affresco di un San Francesco afflitto. Chiedo: a che epoca risale l’opera? Mi rispondono: è del ’29. Mi viene d’istinto: allora, si capiscono tante cose, quello sguardo ci ricorda che cosa è stato il ’29 e, a suo modo, vigila sulla crisi di oggi. Grazia Frappi, che è con noi, non si perde d’animo e butta lì: «Noi amiamo le cose semplici, per noi la panzanella è un pranzo reale». Riemerge Gianfranco e si schermisce un po’: «Però, sia chiaro, non avrei voluto esagerare, qui a Arezzo si vive bene comunque, qui i comandanti dei carabinieri li mandano a riposare». Poi, ci alziamo, e entriamo nell’incanto del giardino pensile di fronte alla Cattedrale in mezzo a piante e erbe aromatiche, pietre e sampietrini, natura, arte e cultura si mescolano e mi sembra di toccarle, parliamo per due ore di tutto girando intorno al mio Nuovo viaggio in Italia, viene fuori una certa idea della vita fatta di leggerezza e ironia, ma dove i valori hanno ancora un loro peso, percepisco quasi fisicamente le virtù e i vizi della provincia più o meno addormentata del Bel paese.

L’ultima sorpresa è tutta al femminile, nuovi lampi di vita che colpiscono, mi si appalesa davanti Rosetta di Poppi, con un sorriso stampato negli occhi, e mi dice: «difenda anche le bancarelle di libri, sono trent’anni che vendo libri e ho dovuto combattere con tutte le amministrazioni per difendere la mia bancarella, in piazza San Jacopo, ogni tanto qualcuno interviene e mi vuole far chiudere, ma io non rinuncio a combattere e prima di far chiudere la bancarella devono passare sul mio corpo». Faccio un passo e mi ritrovo circondato da quattro donne che hanno salvato la libreria Edison di Arezzo, Linda è una di loro, e dice: «Siamo riusciti a mantenere la nostra libreria, l’abbiamo salvata dal fallimento della catena, oggi è la libreria della nostra cooperativa, è una libreria indipendente, garantisco, vivrà a lungo». Forza della natura, di queste quattro donne, Linda, Marzia, Irene, Fiorella, che sprigionano allegria e custodiscono il sangue verace degli aretini. Ti dicono quasi all’unisono: non molleremo e vinceremo, con le nostre armi, che sono la passione e una scorza abituata a tutto. Quelle che servono, a ben pensarci, per ripartire. Roberto Fiorini, che è l’animatore del Giardino delle idee, mi congeda così: «Direttore, siamo un’associazione di volontariato, questi incontri li facciamo autotassandoci, non chiediamo soldi a nessuno e siamo molto contenti». È passata da un po’ la mezzanotte e prendiamo la strada di casa, rifletto sulle parole di Roberto e di Grazia, risento le voci e gli sguardi intorno a un falò sul monte della Verna, nel Casentino a un passo da qui, di quarant’anni fa. Torno ragazzo e ho un tuffo al cuore.

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