Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2015 alle ore 08:14.

My24

Narratore come pochi, Andrea Camilleri è anche un evento: una festa per i lettori. Racconta delle storie. E con voce larga e fonda apre spazi scenici. I suoi romanzi sono voce su carta, pura rappresentazione: «teatri» ai quali assicura realtà di scorci, e sonorità, quella lingua d’invenzione che non è un incesto (filologico, chimico, accademico) di lingua e dialetto, ma la parlata felicemente viva e fluente nel mondo strutturato di Vigàta e nelle sue ordinarie recite all’improvviso: senza copioni e senza palchi. Camilleri si sgranchisce le gambe passeggiando liberamente nei campi aperti della letteratura, renitente alle regole che imporrebbero un colore specifico al genere di romanzo prescelto; e distinzione tra saggio storico, racconto, cronaca, denuncia, e pamphlet. Camilleri ha scelto l’indistinzione. Disorienta i generi letterari. Come storico, che dà forma narrativa alle sue indagini, frequenta gli anfratti poco cartografati dalla storiografia: i tanti hic sunt leones della carta d’identità della nazione. Come cronista di Vigàta, scrive il giornale, il diario di bordo di una navigazione a vista dentro le disfunzioni, gli abusi, i crimini, le collusioni delinquenziali, le intimidazioni mafiose, la corruzione, le truffe, i guasti morali, politici, istituzionali, di un paese fin troppo reale dentro la finzione romanzesca.

C’è un momento, nella carriera di Camilleri scrittore, che è decisivo per il riconoscimento della sua particolare vena narrativa; e soprattutto per l’inserimento della sua prosa comunque storica nella tradizione che da Manzoni arriva all’attualizzazione civile di Leonardo Sciascia. La svolta ha una data precisa: il 1984. È l’anno in cui Sciascia officia il rito d’accoglimento di Camilleri in questa continuità di progettazione letteraria, sancendone l’appartenenza di diritto al laboratorio editoriale da lui predisposto a Palermo, insieme a Elvira e Enzo Sellerio.

Sciascia prese in mano il dattiloscritto del risvolto redazionale che doveva scortare La strage dimenticata di Andrea Camilleri. Lesse: «Alla fine di questo libro sono elencati centoquattordici nomi che non compaiono in nessuna lapide del nostro risorgimento, centoquattordici caduti della rivoluzione del 1848 in Sicilia. “Servi di pena” ¬–com’erano chiamati i galeotti nelle carte burocratiche del tempo a registrazione dei servigi resi dal lavoro coatto– uccisi dalla polizia borbonica non per colpe particolari né perché rappresentavano un pericolo reale. Le autorità, quelle borboniche e quelle unitarie, ad arte ne confusero e occultarono la sorte, e nessuno storico si è mai occupato di loro. Gli assassini e i complici silenziosi compirono la loro riverita carriera di notabili, sotto i borboni, prima, e poi nell’Italia unitaria, e forse su di un muro sperduto o in qualche cascina una lapide la onora. Digressioni per una doppia strage riesuma dall’oblio quei nomi, rintraccia gli assassini, ricostruisce i moventi. Ci rammenta, una volta ancora, come sia più “maestra” la storia che cerca le lapidi che nessuno ha mai messo».

In capo al foglio, Elvira Sellerio aveva scritto di suo pugno il titolo che Camilleri aveva proposto per il romanzo: Digressioni per una doppia strage. Sciascia scelse un titolo meno affiochito, più centrato, e di maggiore secchezza emotiva. Scrisse: La strage dimenticata. Si immerse poi nel risvolto. Intervenne sul testo di copertina. Lavorò di precisione: i «centoquattordici caduti della rivoluzione del 1848» diventò i «centoquattordici caduti nella rivolta del 1848». Eliminò «compirono», sostituito con «fecero». Semplificò, dove necessario, l’articolazione delle frasi. Dischiuse la sintassi narrativa, con qualche breve aggiunta di puntualizzazione: la polizia borbonica uccise i «servi di pena», pur non temendo nessun «pericolo» preciso, «se non quello, forse,» –aggiunse– «che si associassero agli insorti». Mise a fuoco, soprattutto, la congiura della cattiva coscienza politica che accomunò, nel tempo, governo borbonico e stato unitario. Il redattore aveva semplicemente fatto cenno all’occultamento «ad arte» della strage, nella Sicilia borbonica dapprima, e in quella risorgimentale dopo. Sciascia disciolse quell’«arte» nell’acido corrosivo del giudizio, e tradusse: «per diversa responsabilità e per uguale malafede». A conclusione, fece seguire una più incisiva riformulazione dell’ideologia delle lapidi: «La strage dimenticata trae dall’oblio quei nomi, rintraccia gli assassini, ricostruisce i moventi. Ci rammenta, una volta ancora, come sia più “maestra” di quella delle lapidi la storia che cerca le acri, tragiche ed umili verità».

Goffredo Parise diceva che quella del risvolto è un’arte «dell’indicazione». E non c’è dubbio. Sciascia gestì con affabilità la sua lettura dell’opera di Camilleri in modo da indirizzarla, com’era sottinteso nella scrittura stessa del libretto, verso la polemica manzoniana contro la letteratura che monumentalizza la verità per adulterarla e seppellirla nel marmo delle versioni ufficiali. Manzoni aveva fatto seguire ai Promessi Sposi la Storia della Colonna infame per svelare l’infamia di un monumento (la Colonna con lapide annessa) e di un’arrogante menzogna politica; e per rivelare, con il suggerimento di una lettura retroversa del suo romanzo (dalla Colonna ai Promessi), quante «acri, tragiche ed umili verità» storiche possano disseppellire e trasmettere l’ironia e il sarcasmo di una scrittura romanzesca.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi