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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2015 alle ore 08:13.

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I diversi processi e condizioni che includo nella nozione di espulsione sono accomunati dal carattere di estrema acutezza con cui si manifestano. Benché la povertà degradante diffusa nel mondo ne offra l’esempio più significativo, includo fra le diverse condizioni dell’espulsione anche l’impoverimento dei ceti medi nei Paesi ricchi, in quelli poveri la cacciata dimilioni di piccoli contadini da oltre 220 milioni di ettari di terra – oltre 540 milioni di acri – acquistati da investitori e governi stranieri a partire dal 2006 e le pratiche minerarie distruttive in Paesi tanto differenti fra loro quanto gli Stati Uniti e la Russia. Vi sono poi le enormi popolazioni ammassate in campi profughi, istituiti ufficialmente o sorti spontaneamente, i gruppi di emarginati che affollano le prigioni dei Paesi ricchi e i disoccupati, uomini e donne in grado di lavorare, costretti dalla disoccupazione cronica a sopravvivere in ghetti e bidonville.

Espulsioni simili si verificano da molto tempo, ma non sulla scala attuale. Altre sono di tipo nuovo, come quella dei 9 milioni di famiglie degli Stati Uniti colpite da procedimenti di esproprio delle case nel corso di una breve e rovinosa crisi immobiliare durata un solo decennio. In breve, le caratteristiche, gli oggetti e i luoghi di queste espulsioni variano enormemente a seconda delle fasce sociali, delle condizioni fisiche e delle parti di mondo in cui avvengono.

La globalizzazione del capitale e l’impetuoso sviluppo delle capacità tecniche hanno determinato un enorme salto di scala dei processi di espulsione: fenomeni che negli anni Ottanta del secolo scorso potevano essere considerati alla stregua di dislocazioni e perdite secondarie, quali la deindustrializzazione dell’Occidente e di diversi Paesi africani, erano divenuti ormai vere e proprie devastazioni negli anni Novanta (si pensi a Detroit e alla Somalia). Interpretare questo salto di scala come un semplice incremento della disuguaglianza, della povertà e delle capacità tecniche preesistenti significa precludersi la possibilità di cogliere la tendenza di fondo. Lo stesso va detto dell’ambiente: usiamo la biosfera e produciamo danni locali da millenni, ma soltanto negli ultimi trent’anni il danno è cresciuto fino a diventare un evento planetario che può ripercuotersi ovunque, coinvolgendo spesso luoghi – quali le zone artiche del permafrost – che nulla avevano a che fare con quelli in cui la distruzione ebbe origine. E tutto ciò vale anche per altri domini, ciascuno dei quali con le proprie specificità.

Nel loro insieme, le tante diverse forme di espulsione si traducono in una sorta di feroce selezione. Si tende a pensare che le complesse capacità organizzative del mondo moderno portino all’evoluzione di società in grado di operare in modi sempre più complessi, e giudichiamo positivo tale sviluppo. Ma spesso questo giudizio non è del tutto esatto, o può valere soltanto per un limitato arco di tempo. Se si allarga lo sguardo a un campo di situazioni e a un orizzonte temporale più ampi, ci si imbatte in meandri che nascondono alla vista ciò che potrebbe esservi al di là. Ciò solleva un interrogativo: in sostanza, la società odierna tende davvero a quella condizione di brutale semplificazione contro la quale ci mise in guardia il grande storico Jacob Burckhardt nel XIX secolo? Da quanto ho potuto osservare, la complessità non porta inevitabilmente alla brutalità, ma può farlo, e ciò oggi accade spesso. In effetti, la complessità porta non di rado a forme di ordinaria brutalità, che non arrivano a costituire un equivalente, sia pur di segno negativo, di tale complessità, come nel caso dell’odierna, immensa distruzione ambientale.

Come può la complessità portare alla brutalità? La risposta riguarda in parte la logica organizzativa di alcuni dei principali sistemi che oggi governano gli ordinamenti di diversi domini globali, dalla protezione ambientale alla finanza. Illustrerò brevemente la mia tesi servendomi di due casi. Fra le politiche previste dagli accordi fra Stati per proteggere l’ambiente, la principale «innovazione» è costituita dallo scambio dei diritti di emissione di carbonio, il che significa, senza mezzi termini, che i Paesi tenderanno a lottare per espandere il loro diritto di inquinare, in modo da poter acquistare o vendere una quota maggiore di diritti di emissioni di anidride carbonica. Nel caso della finanza, la logica organizzativa si è evoluta in un’incessante spinta alla realizzazione di iperprofitti e all’indispensabile sviluppo di strumenti che consentano di espandere il campo di ciò che può essere finanziarizzato. Ne è derivata la volontà di finanziarizzare anche i mezzi di sussistenza di chi perde tutto se lo strumento gli si ritorce contro, come è accaduto con i mutui ipotecari subprime, lanciati negli Stati Uniti nel 2001.

Ciò che probabilmente non si è ancora capito è che si trattava di un progetto finanziario mirante a produrre elevati profitti per l’alta finanza. Non era affatto inteso ad aiutare persone di censo modesto ad acquistare una casa, ed era quindi antitetico ai progetti pubblici lanciati decenni prima, quali il GI Bill1 e i prestiti nel quadro della Federal Housing Administration. Le capacità tecniche che assecondano lo sviluppo di tali sistemi e innovazioni non sono di per se stesse necessariamente portate a brutalizzare, ma lo fanno quando operano nel contesto di particolari logiche organizzative. La capacità della finanza di generare capitale non è intrinsecamente distruttiva, ma si deve verificare di quale tipo di capitale si tratti: può materializzarsi in un’infrastruttura di trasporto, in un ponte, in un sistema di depurazione dell’acqua, in una fabbrica?

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