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Applausi per Skolimowski: da premiare «11 Minutes»

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mostra di venezia

Applausi per Skolimowski: da premiare «11 Minutes»

Settantasette anni e non sentirli: alla Mostra di Venezia è stato presentato «11 Minutes», ultima fatica del grande Jerzy Skolimowski.

Dopo il notevolissimo «Essential Killing» (2010), con cui aveva vinto il Gran Premio della Giuria e Vincent Gallo la Coppa Volpi come miglior attore, il regista polacco, classe 1938, è tornato al Lido con un'operazione del tutto diversa, ma altrettanto interessante.

Al centro ci sono una serie di personaggi, le cui vite si intrecciano in soli undici minuti: da un marito geloso a un regista hollywoodiano, passando per un venditore di hot dog, un gruppo di suore affamate e molti altri. Esistenze come tante, disperse in un mondo insicuro (la contemporaneità) dove da un momento all'altro potrebbe accadere qualsiasi cosa.

Con una forza visiva e sonora impressionante, Skolimowski firma un thriller ad alta tensione, dove la suspense cresce con il passare dei minuti e in cui non si lascia un attimo di tregua allo spettatore. Se il montaggio ha tempi perfetti e anche il ralenti è utilizzato nella maniera migliore, quello che colpisce ancor di più è una riflessione tutt'altro che banale sul senso dell'immagine nel mondo di oggi: reale e virtuale si confondono, mentre la minaccia apocalittica potrebbe essere rappresentata semplicemente da un pixel morto, e viceversa.

Una lezione di cinema, a suo modo anarchica e rigorosa allo stesso tempo, dotata anche di un finale potentissimo. Molti dei presenti a Venezia, sui social network in particolare, stanno già chiedendo a gran voce un premio che sarebbe anche questa volta meritatissimo.

Sempre in concorso ha trovato spazio anche «Heart of a Dog» di Laurie Anderson, seconda donna in competizione dopo l'australiana Sue Brooks.

Artista, musicista e scrittrice, oltre che regista, Laurie Anderson (celebre anche per aver sposato Lou Reed nel 2008, dopo essere stata sua compagna per diversi anni) ha dato vita a un curioso lavoro sperimentale, una sorta di diario intimo e personale in cui si alternano le storie del suo cane Lolabelle e di sua madre, fantasie dell'infanzia e teorie filosofiche.
Più che un documentario, uno sfaccettato ritratto esistenziale in cui si parla anche della morte e si medita sul tempo e sul tema dell'identità.

La carne al fuoco è molta, anche troppa, ma la regista riesce, almeno a tratti, a emozionare grazie alla sincerità del suo lavoro, narrato in prima persona, e alla capacità di toccare corde profonde.

Colpiscono il suggestivo apparato visivo e le ottime musiche composte dalla stessa autrice: se la forma funziona, molto meno convincente è l'accumulo di messaggi e riflessioni portate avanti non sempre con grande equilibrio, anzi. Risultato: così così.

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