Al nome del filosofo Francesco Bacone, araldo del metodo scientifico, importante giurista e politico, vissuto alla corte di Elisabetta I d'Inghilterra, la teoria che è più spesso associata è quella degli “idoli” della conoscenza. Gli idoli per Bacone sono false nozioni che «penetrano nell'intelletto umano fissandosi in profondità», fino a diventare pregiudizi quanto mai insidiosi e fatali per il progresso della scienza...
Che si tratti di errori connaturati alle facoltà dell'uomo, di false convinzioni che ci creiamo da soli nel corso della nostra individuale esperienza (come se ciascuno di noi fosse intrappolato all'interno di un personalissimo, idiosincratico, mito della caverna), oppure di idoli “del teatro”: quegli “idoli” che si radicano nel nostro modo di pensare a causa dell'influenza dei vari e fuorvianti sistemi filosofici, nient'altro che «favole presentate sulla scena», «mondi fittizi da palcoscenico».
Fin qui, è il Bacone che ci è stato tramandato dalle storie della filosofia. Ciò che solitamente non viene detto, invece, è che alcune favole – antichi miti di ovidiana memoria, ma non solo – possono avere, se lette in una luce diversa, un valore conoscitivo tutt'altro che trascurabile. Ci sono favole e favole, verrebbe da dire. Vere e proprie “favole filosofiche” sono quelle raccolte nel breve trattatello De sapientia veterum, pubblicato a Londra nel 1609 e presentato da Bacone come uno scritto «pieno di rispetto per la remota antichità e per le favole dei poeti»: una raccolta di storie, molte delle quali incentrate sull'amore e sull'azione delle passioni nell'uomo, che secondo Bacone possono essere “spremute” come acini d'uva contenenti un succo di verità.
Sono gli stessi miti che molti anni dopo, in circostanze alquanto diverse ma con il medesimo spirito, un'altra grande intellettuale attenta alla “remota antichità”, Marguerite Yourcenar, avrebbe rivissuto attraverso i suoi scritti. Precisamente: in un piccolo capolavoro intitolato Fuochi (1936), prose liriche nate per rispondere con intelligenza poetica (e, aggiungeremmo noi, un pizzico di filosofia), a una «crisi passionale». Un amore che aveva procurato alla scrittrice molte ferite. Tra Antigone o della scelta e Fedone o della vertigine, «ho ritrovato il vero senso delle metafore dei poeti», scrive Yourcenar, aggiungendo poi, con slancio limpidamente autobiografico: «mi sveglio ogni notte nell'incendio del mio stesso sangue».
In Bacone, il filosofo (innamorato) è invece Orfeo, poiché la filosofia può essere paragonabile a un canto veritiero che ammalia le anime: «La filosofia si rivolge alle cose umane e insinuandosi nell'animo degli uomini con la persuasione e l'eloquenza vi porta l'amore della virtù, dell'equità e della pace».
Le fabulae antichissime a cui Bacone dà nuova linfa, in questo esperimento filosofico così originale, sono le più amate della tradizione classica. Favole che attraverso la rilettura baconiana diventano esercizi – inaspettati, profondi, letterari – in cui è all'opera quella che con Salvatore Veca potremmo chiamare “immaginazione filosofica”. Bacone, in questo chiaramente debitore delle metafore più tradizionali, nonostante tutta la sua ostilità per auctoritates come Platone, mette poi in guardia dal desiderio passionale: «Anche le tigri giacciono intorno al desiderio e ne sono aggiogate al carro. Dopo che qualche desiderio sale sul carro... diviene vincitore e trionfatore della ragione». Intorno a quel carro, infatti, «tripudiano ridicoli demoni».
Nell'universo favolistico messo in scena da Bacone ritroviamo grandi protagonisti del mito come Proteo e Prometeo, Dioniso, Zeus e Cassandra, Edipo e la Sfinge (efficace allegoria della scienza nei suo corso sfuggente), ma anche l'umanissimo Icaro nel suo disperato volo oltre ogni buon senso e moderazione. Fino ad arrivare alle Sirene, simbolo del piacere “alato” che rapisce gli uomini. Proprio questo, in modo diverso, insegnano – ricorda Bacone – i versi di Catullo e le parole di Salomone.
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