Cultura

Lo straniero nella Grecia antica

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Lo straniero nella Grecia antica

Quando vedemmo la foto di Aylan, morto a faccia in giù sulla sabbia di Bodrum, bagnato dalle onde del mare, in molti piangemmo il piccolo profugo siriano, e chi non lo fece si sentì come se lo avesse fatto. Ci dissero che era per quella straordinaria somiglianza ai nostri figli. Ci dissero in fondo che per una volta non fummo più “Noi” opposti ad “Altri”, ma fummo solo, e dolorosamente, “Noi”. Ogni scissione dunque si annullò. Soprattutto ogni opposizione. Perché non sempre è stato così. Non sempre il “Noi” si è opposto agli “Altri”. Torniamo allora alle radici del nostro pensiero, nel tempo in cui il nostro pensiero divenne ciò che ogni nutre la nostra percezione, il nostro occhio, il nostro sguardo. Nel tempo in cui si fece la cultura che ogni ci identifica. Ci torniamo con il bel saggio del grecista Andrea Cozzo, dal titolo “Stranieri – Figure dell'Altro nella Grecia Antica” (Di Girolamo Editore).

Perché? Che senso cioè, si domanda lo stesso autore, “un'indagine sul problema dello straniero nella Grecia antica?”. La risposta sempre nelle sue parole: “Ho cercato – scrive - di fare in modo che questi potesse trovare nel materiale prodotto elementi di riflessione sul mondo in cui vive, dove è presente quell'idea di straniero che, pur evitando il razzismo nella sua forma classica – diretta ad inferiorizzare coloro che hanno un colore della pelle diverso dal nostro -, considera l'Altro come persona da escludere, o, come talvolta oggi si preferisce eufemisticamente dire, a cui garantire la sua cultura (come se la nozione di cultura fosse una categoria in modo etnicamente chiuso), magari riconoscendo la sua difficoltà di integrazione con la nostra o addirittura il rischio della sua subordinazione alla nostra”.

Così scopriamo il senso dell'identificazione con gli Altri, gli stranieri: perché tutti un giorno possiamo essere Altri, ed accoglierli, vuol dire riservarci la possibilità di essere a nostra volta accolti. Lo straniero prima si accoglie poi si interroga: “…prendete il cibo e gustatelo. Quando vi sarete saziati, allora vi chiederò chi siete”, dice Menelao (Odissea 4, 60-62). Dunque “l'accoglienza – scrive Cozzo – è sancita a livello valoriale”. E vale sia nel caso si deve accogliere un mendicante sia nel caso in cui lo straniero è un aristocratico: “…per l'uomo che ha anche solo un po' di senno, l'ospite e supplice è come un fratello” (Odissea, 8, 546-547).

Certo non sempre è tutto così lineare e nella Grecia post omerica la questione si complica. Stranieri sì purché non mendichino, stranieri sì purché non siano molesti e purché siano discreti. E comunque in ogni caso la condizione dello straniero è sempre l'insicurezza. Ci avviciniamo ai giorni nostri, da una pagina all'altra, velocemente. Nel ritmo della lettura e nella tenuta dell'approfondimento sta la forza e la vivacità di questo saggio. La parola dei classici diventa linguaggio dell'attualità e nei classici troviamo davvero le risposte alle domande dell'attualità, in modo concreto ed immediato sia che a leggere sia l'occhio colto del lettore ben formato o semplicemente l'occhio interessato dell'uomo curioso. Nausicaa, ad esempio, smette allora di essere un fanciulla di un altro mondo, ma carnale ed appassionata può insegnarci la virtù, appunto, dell'accoglienza. Poi sarà l'amore a sancire quali straordinarie avventure dell'animo la buona disposizione può mettere in moto. Ad Odisseo appena scampato dalla morte dice: “Straniero…La fortuna è Zeus che la distribuisce agli uomini, ai buoni e ai malvagi, come vuole per ciascuno. A te ha dato in sorte questo e bisogna che tu lo sopporti. Ma ora, poiché alla nostra citta, alla nostra terra sei giunto, non ti mancheranno le vesti né nessun'altra cosa di ciò che è giusto che riceva un supplice infelice” (Odissea 6, 187-193). Ed è solo una delle voci che si scaldano e ci scaldano nelle pagine di Cozzo.

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