Cultura

La tv americana e noi

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PROLOGO

La tv americana e noi

Da un decennio ci diciamo che le serie tv sono migliori dei film e da un paio di anni che la televisione è la nuova letteratura (copertina di IL di settembre 2013). Non parliamo d'altro che di nuove serie tv americane e ogni volta sospiriamo rassegnati davanti a quel modello irraggiungibile. Ci consoliamo con Gomorra e 1992 e sogniamo una House of Cards italiana (proviamoci davvero, magari, partendo dal nuovo romanzo di Giovanni Negri Il gioco delle caste, Piemme).

Tutto questo mentre negli Stati Uniti, in controtendenza, discutono della fine dell'età d'oro della televisione, sono preoccupati della scarsità di nuovi talenti creativi e cominciano a dire che le serie tv hanno raggiunto il loro picco. Ci avvertono, insomma, che la fine del mondo è vicina.
Il dibattito è interessante. La critica televisiva si divide tra chi, come Emily Nussbaum del New Yorker, sostiene che le serie tv ormai sono diventate stucchevoli, consolatorie e nazionalpopolari, adatte a essere consumate tutte assieme e in compagnia quasi fossero caramelle da scartare e ingurgitare fino a farne indigestione («The caramel epoch»), e chi invece è convinto al contrario che siano diventate troppo elitarie al punto che la cosiddetta “età d'oro” della televisione in realtà nasconda un lato oscuro: una specie di cospirazione ordita dai critici più raffinati che esaltano l'epoca fulgida della televisione di qualità per elevare lo status degli show di nicchia, che non vede nessuno, a scapito di quelli invece apprezzati dalle classi sociali meno istruite e dalle masse. Sarà. Potrebbero avere ragione o torto entrambi. Ma in fondo non ce ne importa niente: l'autunno è stagione di novità televisive e noi gli show ce li godiamo, quelli di nicchia e quelli popolari. Ci basta sapere che l'anno scorso in America ne sono andati in onda 370 e che quest'anno arriveranno a 400. Ce ne sono di orribili e di meravigliosi, di consumo popolare e no, ed è sempre più difficile valutarne l'impatto reale. Se i critici privilegiano e sopravvalutano le serie sofisticate, non è più certo che il semplice calcolo dell'audience e dello share sia ancora il criterio più importante. I vecchi rilevamenti non funzionano più, come dimostra il flop di Breaking Bad in televisione e il successo stratosferico ottenuto poi su Netflix e sulle altre piattaforme a pagamento (e su quelle illegali).

I guru della tv come Leslie Moonves della Cbs ripetono a ogni intervista che l'audience non è più l'elemento unico di valutazione del business televisivo perché sono diventati rilevanti i ricavi dal video on demand, dagli abbonamenti alla tv a pagamento, dai diritti internazionali e dalle finestre temporali diverse durante le quali gli show vengono trasmessi sulle varie piattaforme. La stessa cosa, «non c'è solo lo schermo della tv», ha detto Antonio Campo Dall'Orto nella prima intervista da neo direttore generale della Rai.
Il rapporto Ericsson Tv and Media 2015 conferma con i numeri: più del 50 per cento dei consumatori di prodotti televisivi guarda contenuti on demand almeno una volta al giorno, il 20% in più rispetto a 5 anni fa. I millenials, ovvero i sedicenni-trentaquattrenni, spendono il 53 per cento del loro tempo di visione di contenuti video su smartphone, laptop e tablet. Sulla «tv senza la tv», che è una versione de-ideologizzata e iper-televisiva del vecchio adagio fricchettone «io non ho la tv», leggete l'articolo di Vincenzo Latronico a pagina 49.
In ogni caso dipende tutto dai programmi, dicono sia Moonves al New York magazine sia Campo Dall'Orto al Foglio. Contano solo gli show. E così, sotto forma di consigli alla Rai, ne abbiamo scelti 59 tra quelli in programmazione nella nuova stagione televisiva americana. Buon divertimento.

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