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La quinta internazionale

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La quinta internazionale

In Inghilterra il diversamente laburista Jeremy Corbyn ha stravinto le elezioni per la leadership del partito con un programma di estrema sinistra che fa strame dell'esperienza di governo di Tony Blair e dell'eredità del New Labour. Negli Stati Uniti l'indipendente Bernie Sanders ottiene risultati sorprendenti nei sondaggi per le primarie democratiche alle spalle di Hillary Clinton pur definendosi “socialista”, un'espressione che all'orecchio americano suona suppergiù come “seguace di Pol Pot”. Il movimento Podemos in Spagna guidato da Pablo Iglesias ha conquistato, diluendosi in più ampie liste civiche, i municipi di Madrid e Barcellona, e, pur sperimentando una lenta planata nei sondaggi, sarà decisivo per l'esito delle elezioni politiche di dicembre. In Grecia, Syriza – per quanto orbata di Yanis Varoufakis, che fa ormai parte per se stesso, e degli scissionisti di Unità Popolare – rimane protagonista della scena politica.

È in corso un ritorno al passato? La rinascita della sinistra radicale nel mondo occidentale è senza dubbio circonfusa di un alone vintage, tra volenterose riletture di Karl Marx e la riproposizione di parole d'ordine che sembravano ormai obsolete, ad esempio la rinazionalizzazione delle ferrovie inglesi auspicata da Jeremy Corbyn. Eppure, questa sinistra radicale è un fenomeno nuovo che non coincide con un aumento dei consensi di quelle forze politiche che, anche nella fase di crepuscolo delle ideologie e di corsa degli elettori verso il centro, avevano tentato di sventolare la bandiera rossa dalla ridotta in cui si erano trovate a vivacchiare. L'ascesa di Podemos e quella di Syriza, ad esempio, non hanno infatti cancellato la presenza autonoma e spesso ostile dei postcomunisti “tradizionali” di Izquierda Unida in Spagna e soprattutto degli hardliner stalinisti del Kke in Grecia.

Le fonti a cui si abbeverano i simpatizzanti della nuova sinistra radicale non sono scritte in russo e non portano impresso sul frontespizio l'imprimatur dato da un qualche Comitato centrale, ma provengono perlopiù dal mondo anglosassone. Se è vero che gli spagnoli di Podemos fanno parziale eccezione e per ragioni geografico-linguistiche fanno riferimento soprattutto a esperienze latinoamericane, financo i greci, pur avendo avuto in tutto il secondo Novecento un'effervescente tradizione di composite sinistre radicali locali, hanno avuto per lungo tempo come loro poster boy anti-troika Varoufakis, che, oltre ad avere anche la cittadinanza australiana, ha passato tutta la sua vita di studente e di docente negli atenei inglesi, statunitensi e australiani.

L'ascendenza anglosassone della nuova sinistra radicale può essere ripercorsa partendo quantomeno dalla grafomaniacale produzione saggistica del sempiterno Noam Chomsky (americano, suo malgrado), passando poi per l'ormai antico No Logo di Naomi Klein (canadese) e per Occupy Wall Street, il movimento nato nel 2011 a New York che ha coniato quel concetto di “occupy” che è poi dilagato in tutto il mondo con la potenza di un hashtag e ha geminato infiniti Occupy Qualsiasi Cosa (intanto gli spagnoli avevano già fatto da sé con gli “indignados”, da cui è nato Podemos). In ogni caso, i sostenitori della nuova sinistra radicale possono sempre citare come pezza di appoggio un editoriale dell'economista Paul Krugman (americano) o del suo collega Joseph E. Stiglitz (americano pure lui), facendosi usbergo della loro qualifica di “premi Nobel”. E anche quando un nuovo testo sacro è stato rivelato in un'altra lingua, è il caso de Il capitale nel XXI secolo del francese Thomas Piketty (uno di quei saggi il cui numero di copie vendute è inversamente proporzionale al numero di lettori che sono riusciti a proseguire oltre l'indice), l'ingresso nel Canone arriva soltanto dopo il fragoroso successo dell'edizione in inglese. Da ultimo, ecco PostCapitalism: A Guide to Our Future dell'inglese Paul Mason, un saggio di cui ci racconta su questo numero di IL Alberto Mingardi.

Oltre a questo patrimonio cartaceo, le nuove sinistre radicali del mondo occidentale condividono altri tratti comuni, seppure in dosaggi diversi da Paese a Paese: l'opposizione verso ogni forma di austerity, la preferenza per modelli assembleari dal “basso”, la diffidenza verso ogni tipo di establishment e verso molti organismi sovranazionali dall'Unione europea alla Nato, il rifiuto per una visione occidentalista del mondo, l'odio per la finanza, la sfiducia negli organi di informazione organizzati a cui si contrappone una grande fiducia nell'orizzontalità della Rete, la contrarietà a qualsiasi intervento armato e, ça va sans dire, la volontà di alterare considerevolmente le quote di spesa pubblica destinate negli ultimi anni dalle sinistre di governo ora al welfare ora all'aiuto alle imprese. E, in sostanza, l'“anticapitalismo” delle nuove sinistre radicali non si declina come volontà di abbattere un capitalismo trionfante, ma come superamento di un capitalismo che si sarebbe azzoppato da sé precipitando nel tombino della crisi globale. Al di là degli elementi in comune – elementi che, come spesso accade, trovano una sponda paradossale nel parallelo successo dei movimenti populisti di destra, dai partiti euroscettici del Vecchio continente fino a Donald Trump (che infatti è stato lodato da Krugman sul New York Times per le proposte economiche) – ogni nuova sinistra radicale “locale” ha una fisionomia propria.

In Inghilterra, nella corsa per la leadership del Labour, Jeremy Corbyn ha goduto del suo profilo di outsider e di politico “non compromesso”, nonostante trentadue anni in Parlamento: infatti, grazie alla legge elettorale del Regno Unito, se un politico è fortissimo nel suo collegio, nel caso di Corbyn a Islington North, nulla può fare il suo partito per contrastarne l'elezione, anche se poi il deputato è da tempo, nel caso di Corbyn da decenni, in contrapposizione quasi frontale con la maggioranza del partito medesimo. Ripescando sapori anti-thatcheriani rimasti carsicamente presenti nel dibattito inglese soprattutto grazie ai film di Ken Loach, le proposte economiche di Corbyn – ribattezzate Corbynomics o, più ruvidamente, «fantasie da Alice nel Paese delle Meraviglie» (copyright Tony Blair) – vanno dalla già citata rinazionalizzazione delle ferrovie alla riduzione delle agevolazioni fiscali per le imprese, da un aumento della spesa pubblica per la sanità e il welfare al cosiddetto “people's quantitative easing”, che prevederebbe lo stampare moneta per finanziare un programma di infrastrutture.

In ogni caso, più che il programma ha funzionato il candidato, capace di attrarre, nonostante i suoi sessantasei anni e il suo lungo soggiorno in Parlamento, gli elettori più giovani a caccia del nuovo. Una dinamica simile è quella su cui Bernie Sanders sta costruendo la sua popolarità in vista delle primarie democratiche negli Stati Uniti. Il senatore del Vermont, dopo sedici anni alla Camera dei Rappresentanti e otto al Senato, si presenta anche lui come un outsider paradossale: complice un'altra volta il sistema elettorale a collegi, è sempre stato eletto come “indipendente”, rara avis nella politica americana, e ha spesso attaccato il Partito democratico con parole fiammeggianti. E a settantatré anni seduce con il suo essere “nuovo” e immacolato l'elettorato giovanile. Il suo programma, che si è guadagnato il nomignolo di “rivoluzione sandernista”, include una spinta vigorosa verso la gratuità di sanità e istruzione, maggiori tasse per Wall Street e un programma da mille miliardi di dollari in infrastrutture per creare tredici milioni di posti di lavoro.

Di Syriza e del suo successo nel contesto di semi-commissariamento della Grecia da parte della troika già tutto si sa, come già si conosce, trattandosi dell'unico partito della sinistra radicale a essersi misurato con il governo di un Paese, quale divaricazione ci sia stata tra le promesse e i risultati ottenuti dopo una breve immersione nella Realpolitik. Nel percorso, Syriza ha perso il suo più scintillante profeta, Varoufakis. Un destino parallelo a quello di Podemos che, anche prima di potersi misurare con il governo, ha visto l'abbandono della politique politicienne da parte del suo numero due e pilastro ideologico Juan Carlos Monedero (di cui Feltrinelli ha tradotto il saggio Corso urgente di politica per gente decente); evidentemente ai compilatori di ricettari politici la politica, quella vera, sta subito stretta. Peraltro, Podemos, che ha da poco scritturato Piketty come consulente economico, tra i nuovi movimenti di sinistra radicale è quello con l'ideologia più sfuggente e trae il suo successo soprattutto dal tasso di disoccupazione che in Spagna, benché in via di riduzione, rimane abominevole e da un'indistinta rivolta anticasta contro popolari e socialisti che secondo molti elettori sono accomunati da un'inestirpabile tendenza alla corruzione.

Intanto in Francia la sinistra socialista, mentre osserva con orrore il tentativo riformista del premier (del loro stesso partito) Manuel Valls, sogna la rivincita e si stringe intorno all'ex ministro dell'Economia Arnaud Montebourg e alla sua compagna Aurélie Filippetti, ex ministro della Cultura ed ex fidanzata di Piketty, che invitano ai loro meeting proprio Varoufakis. Ma in questo caso la battaglia interna al Ps è più che altro legata alle frizioni tra l'homo novus Valls, che non tiene in gran conto la vecchia guardia, e gli esautorati consiglieri di amministrazione della “ditta”. E in Italia? Anche qui, nel MoVimento 5 Stelle e altrove, fermentano idee analoghe e si sfogliano gli stessi libri. Ma non si individuano né un leader né un partito che sappiano farne la loro core issue.

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