Correva il 1965. In Cina iniziava la rivoluzione culturale, a New York il capo della setta dei “musulmani neri” Malcom X veniva ucciso e la sonda spaziale sovietica Zond 3 inviava immagini della parte nascosta della luna. Fu in quell'anno, il 4 ottobre per la precisione, che papa Paolo VI si recò alle Nazioni Unite. E' il primo pontefice a compiere lo storico passo in un periodo che ricordiamo come quello della “guerra fredda”.
Mezzo secolo non è passato invano. In questi giorni siamo stati sommersi dalle notizie del viaggio di papa Francesco a Cuba e negli Usa, dei successi avuti e degli appelli fatti, ma tutto cominciò con meno clamore in quell'ottobre del 1965. Paolo VI, uomo dalle mille domande e con una sofferenza interiore che ancora commuove chi ripercorre anche qualche frammento della sua esistenza, andò all'Onu per dire “no” alla guerra, per parlare a nome del Concilio, per ricordare la grande esperienza della Chiesa. Una sua frase andrebbe scolpita, scritta, ripetuta: “Siamo esperti di umanità”.
Non fu la sola indimenticabile. Quella pace che noi cerchiamo continuamente e non riusciamo a trovare (oggi nel mondo sono in corso almeno una ventina di piccole guerre di cui non si hanno notizie), Paolo VI l'aveva evocata con parole che toccano ancora: “Non si costruisce soltanto con la politica e con l'equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere di pace”. E aveva compreso quello che alcuni filosofi e sociologi continuano a commentare senza esito: “Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l'umanità. Il pericolo vero sta nell'uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina e alle più alte conquiste”.
Quel discorso all'Onu è l'inizio di qualcosa che oggi cominciamo a comprendere. Fu una sfida al mondo (il Papa andò come capo di Stato), resta un momento di luce in mezzo alle logiche delle potenze contrapposte, al disastro del Vietnam, agli interventi armati dell'Urss, alle oppressioni delle rivoluzioni culturali che spaccavano le dita a chi suonava “musica borghese”. Il '68 cercherà di far giungere l'immaginazione al potere, Paolo VI chiese al potere di usare l'immaginazione per sospendere ogni violenza.
Non importa se i risultati non si sono ancora visti o non si vedranno a breve. Quello che conta è un messaggio che non muore, proferito da un esile papa. Ora il testo di quel discorso, con la riproduzione manoscritta di Paolo VI, la trascrizione con le correzioni diplomatiche e lo scritto ufficiale, precedute da un'ampia introduzione di Andrea Riccardi, sono diventati un libro: “Manifesto al mondo” (Jaca Book, pp. 128, euro 12). In queste pagine ci sono idee di cui abbiamo ancora bisogno.
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