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Dossier Neanche un'intensa Monica Bellucci risolleva le sorti di Ville-Marie

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Dossier | N. 36 articoliFesta del Cinema di Roma

Neanche un'intensa Monica Bellucci risolleva le sorti di Ville-Marie

Di film corali è piena la storia del cinema. Soprattutto recente. Pensiamo ad America oggi di Robert Altman, Magnolia di Paul Thomas Anderson e Crash di Paul Haggis per soffermarsi sugli esempi più riusciti provenienti da oltreoceano. Il canadese Ville-Marie prova a inserirsi nello stesso filone strizzando l'occhio in più punti soprattutto a quest'ultimo. Sia per il mood di tristezza e malinconia che lo accompagna per tutti e 100 minuti sia per il ruolo di primo piano attribuito all'ambientazione. Lì era una Los Angeles notturna e tentacolare qui è una Montreal spesso diurna e caotica. Ma il tentativo di inserirsi in un filone così battuto non può dirsi riuscito. Tant'è che il secondo lungometraggio di Guy Edoin dimostra tutti i suoi limiti. Sin dalle prime battute.

Se scegli di disseminare una serie di indizi nella prima mezz'ora senza fornire alcun dettaglio sullo sviluppo degli eventi o sui legami tra i vari personaggi devi però preoccuparti di trovare un filo conduttore che tenga insieme fatti e situazioni. Altrimenti la coralità che speravi di raggiungere finisce per essere un boomerang. E quello stesso spettatore che volevi avvicinare, stuzzicando la sua curiosità e spingendo sul pedale delle emozioni, rischi invece di mantenerlo a distanza di sicurezza per l'intera proiezione. Impedendogli di fatto di entrare in empatia con la vicenda che scorre sullo schermo. Ed è ciò che succede in Ville Marie e nelle vicende drammatiche che colpiscono i suoi quattro protagonisti. Vale a dire Sophie, un'attrice interpretata da Monica Bellucci che torna dopo tre anni in Canada per incontrare il figlio Thomas che studia in Quebec ma che non ha mai saputo chi fosse suo padre. A cui si aggiungono il portantino Pierre che non riesce a rimuovere un evento traumatico del suo passato e una dottoressa, Marie, che passa le sue giornate tra doppi e tripli turni al pronto soccorso per non pensare al lutto che ha subito di recente e all'impatto nodale che ha sul suo presente.

Il punto nodale è l'ospedale (che dà il titolo al film) dove i destini dei protagonisti finiscono, presto o tardi, per incrociarsi. Solo sulla carta però. Ed è in quel momento che nascono i problemi. Complice anche la scelta poco felice di aggiungere a un menù già così ricco una 'spruzzata' di metacinema. Ma il 'film nel film' - che nel caso di specie è un melo anni 50 eccessivamente barocco con cui Sophie sperava di rispondere a tutte le domande del figlio sulla sua venuta al mondo - è per sua natura un ingrediente da maneggiare con cura se non si vuole correre il rischio che, mescolando i piani, finisca per risultare mescolata anche l'intera struttura narrativa. E il ritmo dell'opera. Ritmo che si rivela infatti altalenante, lento e soprattutto distante dal pubblico in sala. Con effetti molto diversi e per certi versi opposti rispetto alle intenzioni di partenza. Un incidente di percorso che neanche l'interpretazione di una convincente di Monica Bellucci - che con gli anni riesce ad aggiungere intensità alla sua bellezza immutata - riesce a impedire.

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