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Dossier The end of the tour ti fa venire voglia di correre in libreria

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Dossier | N. 36 articoliFesta del Cinema di Roma

The end of the tour ti fa venire voglia di correre in libreria

Probabilmente non c'è uno scrittore che abbia incarnato meglio di David Foster Wallace lo spirito (e le mille contraddizioni) degli Stati Uniti moderni. E della loro ricerca, specialmente nell'ultimo decennio, di una versione 2.0 del celebre sogno americano ormai appannato. Come dimostrano la vita e le opere dell'autore che è nato nel 1962 a Ithaca, nello stato di New York, ed è morto suicida nel 2008 nella sua abitazione di Clermont, nel sud della California. Schiacciato forse dagli effetti della depressione e dalla continua difficoltà di doversi confrontare tutti i giorni con un modello dove «se hai raggiunto X vuoi anche Y e poi pure Z», come sentiamo dirgli in una delle scene più riuscite di The end of the tour: il quarto lungometraggio dello statunitense James Ponsoldt che è passato ieri sugli schermi della Festa del cinema di Roma.

Un film indubbiamente coraggioso. Sia perché la scelta del biopic rappresenta una scommessa rischiosa di suo per il pericolo sempre in agguato di virare da un momento all'altro sull'agiografia. Sia perché il coefficiente di difficoltà tende addirittura a salire se decidi di utilizzare la forma poco battuta dell'intervista a due sul modello di Frost/Nixon uscito ormai sette anni fa. Tanto più che l'intervista in questione non è mai stata pubblicata. Nel 1996 la celebre rivista musicale Rolling Stones decide di inviare il suo columnist David Lipsky, all'epoca scrittore alle prime armi, a intervistare un altro David, ma ben più noto: quel Foster Wallace che era reduce dal successo del suo secondo libro, il monumentale (1.282 pagine nella versione uscita in Italia per Einaudi stile libero) Infinite Jest. Per cinque giorni, in coincidenza con la tappa finale del tour letterario di presentazione del romanzo, i due si studiano, si scoprono, si aprono, si conoscono e all'improvviso si richiudono. In un continuo gioco di rimandi tra realtà e finzione, tra vita e letteratura, tra sogni e disillusioni. Che troverà una sua sublimazione su carta solo qualche anno dopo quando Lipsky ne trarrà il suo Come diventare se stessi.

Grazie alle interpretazioni convincenti tanto dell'intervistatore (Jesse Eisenberg, già visto di recente in Social network) quanto dell'intervistato (Jason Segel, che somiglia in maniera impressionante all'originale), The end of the tour vince ampiamente la sua scommessa. Riuscendo, in un'ora e mezzo di proiezione, a trasportare sullo schermo quei bagliori che le pagine di Foster Wallace emanavano copiosi e a condensare l'incontro/scontro tra due personalità meno lontane di quanto non sembri all'inizio. Lo fa utilizzando uno stile di regia pulito che mette sempre al centro dell'inquadratura i due protagonisti, in coppia o da soli. Con un'abbondanza efficace di primi e primissimi piani; le poche volte che allarga il campo Ponsoldt lo fa per calarli meglio nella realtà che li circonda. Il risultato è un film efficace e diretto. Capace peraltro di far nascere nello spettatore che magari non ha mai letto David Foster Wallace la voglia di correre in libreria e recuperare il tempo perduto. E, al tempo stesso, fare tornare in chi già lo conosce il desiderio di tirare giù dallo scaffale una qualsiasi delle sue opere e immergersi di nuovo nel suo diluvio di pensieri e parole in libertà.

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