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Un uomo in finale

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Fuori collana

Un uomo in finale

Chiamato il Prescelto e atteso con ansia fin dal liceo, con le dirette tv nazionali delle sue partite in palestra contro le altre scuole, LeBron era l'unico che poteva cominciare a pensare di superare Jordan. Ma c'era una differenza che non si poteva sottovalutare: Michael si era sempre sentito uno scartato, uno che doveva dimostrare tutto, e che anche nel discorso d'introduzione nella Hall of Fame ancora rinfacciava a rivali e detrattori del liceo di averlo sottovalutato. LeBron, invece, è The Chosen One.

Così, se Jordan ha potuto assistere allo sviluppo della propria leggenda rimanendo concentrato sulla propria smania di competere, LeBron sembra sempre costretto a capire da prima come si svilupperà la sua. Nel 2010 lasciò Cleveland per andare in una società vincente. Arrivò a Miami e disse al pubblico che con Chris Bosh e Dwyane Wade avrebbero vinto «non due, non tre, non quattro, non cinque, non sei, non sette…» titoli. Ne vinsero due, ma raggiungendo quattro finali consecutive, e sembrò poco pur essendo un'impresa.
James si stufò del progetto Miami e cominciò a pensare di poter entrare nella leggenda ritornando ai Cleveland Cavaliers, città del suo Ohio, con cui aveva giocato i primi sette anni di Nba. 2015, primo anno, quinta finale consecutiva, un'altra sconfitta. Aggiungendo la sconfitta dei Cavs nelle finali 2007 contro San Antonio, LeBron è arrivato a 4 finali perse e 2 vinte. La legacy, quell'idea che ossessiona gli americani – cosa lasci al mondo, cosa ricordano di te –, si faceva agrodolce.

È arrivato in finale in sei degli ultimi nove anni. È assurdo, ma si può anche dire che ha perso quasi metà delle finali dell'ultimo decennio. Per la stagione che va a iniziare, siccome gioca nella debole Eastern Conference, lo danno tutti ancora in finale, nonostante l'usura e i trent'anni compiuti. Se non ce la fa quest'anno bisogna cominciare a pensare alla massima americana «Padre Tempo non è mai stato sconfitto».

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