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C'è un'Italia, dopo Garrone e Sorrentino

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YOLO

C'è un'Italia, dopo Garrone e Sorrentino

Spesso i film italiani che contano sono accompagnati da un'aura di importanza, da un senso di gravità del cimento affrontato dal regista: grandi temi per grandi narrazioni, con la condanna a essere grandi opere. Il paradigma del calvario del grande regista negli ultimi anni è stato ovviamente incarnato da Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, che nella loro produzione recente hanno scelto di affrontare storie che fossero capaci di guardare in faccia la nostra storia, il nostro immaginario collettivo, il nostro essere italiani, insomma. Cinema votato a prendere il toro per le corna, che vuole dirci a che punto siamo con l'idea che abbiamo di noi come persone, e come popolo. Ma ci sono anche film che provano a portare gli spettatori in un luogo sconosciuto, che trasformano scenari familiari in luoghi diversi, sganciati dai ricordi che ne abbiamo: per esempio, allo scorso Festival di Venezia è stato presentato Per amor vostro, secondo lungometraggio di Giuseppe M. Gaudino diciotto anni dopo il suo esordio, Giro di lune tra terra e mare.

Per amor vostro racconta la storia di una donna sposata a un camorrista e intrappolata nella consueta Napoli caotica, sporca, senza soldi; ma la regia di Gaudino trasforma la città e i suoi cliché in un viaggio onirico sempre attaccato al volto della protagonista in un bianco e nero spezzato da visioni a colori, scene reali trasfigurate da animazioni quasi infantili, a esprimere la forza e la semplicità dei desideri della donna; libere associazioni creative come nel suo primo film, dove nella nativa Pozzuoli creava un'allucinazione storica che alternava una famiglia di moderni Malavoglia con Agrippina, la Sibilla Cumana e Giovanni Battista Pergolesi.

Poi esistono ancora autori rigorosissimamente sperimentali come Luca Ferri, il cui ultimo film Abacuc esce nelle sale il 2 novembre: girato in 8 millimetri monocromatico prevalentemente nella provincia lombarda, il film segue le vicende di un omone di quasi duecento chili che vaga tra strade vuote e cimiteri, una sorta di ultimo uomo sulla Terra le cui peregrinazioni sono accompagnate da voci meccaniche che ripetono frasi tra il letterario e l'assurdo, una specie di lamento della fine del cinema, descritto dal regista come «il bisogno dell'arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in se stessa. Non può essere che così, visto il suo stato oggi». Un'opera che sembra una provocazione surrealista, una tabula rasa a protestare contro l'impoverimento della riflessione sulla forma cinematografica.

Quesiti che si pone anche un altro regista agli antipodi della ricerca ultraermetica di Ferri, il figlio ingrato Luca Guadagnino che fa film molto stranieri assieme alla sua musa Tilda Swinton, e il cui nuovo A Bigger Splash (nel cast anche Ralph Fiennes, Dakota Johnson e Matthias Schoenaerts) esce il 26 novembre dopo la presentazione a Venezia. Cerchi Guadagnino sul web e trovi decine di articoli che titolano con la parola «fischi», quelli che avrebbe ricevuto al Lido a settembre e anche sei anni fa con il fim precedente, Io sono l'amore. Nel frattempo la stampa straniera lo adora, mentre qui ci si arrabbia perché non si capisce bene che cosa voglia fare. È farsa, è dramma erotico, è critica sociale? Queste le critiche su A Bigger Splash (remake di La piscina di Jacques Deray), che racconta un intreccio di desideri e tensioni tra quattro personaggi a bordo piscina sull'isola di Pantelleria.

Anche Sorrentino e Garrone nei loro ultimi film hanno scelto cast internazionali e storie al largo dallo Zeitgeist italiano, ma mentre i cimenti all'estero dei due prediletti vengono ammirati come le fatiche di un domatore nella gabbia delle tigri, l'internazionalismo di Guadagnino passa come snobberia. «Il mio film non è una declinazione dell'Italia prêt-à-porter per un gusto neutro e internazionale, i registi che usano la Pro Loco per interesse personale perdono un'occasione», ha replicato Guadagnino in stile “a buon intenditor poche parole”. «Piuttosto, quel che può accadere è che gli italiani abbiano difficoltà a relazionarsi con la propria prossimità». Ben vengano i film che vogliono trasfigurare la prossimità, per proporre un cinema dove non si va a riconoscere, ma a scoprire.

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