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Il momento dei Clippers

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fuori collana

Il momento dei Clippers

I Los Angeles Clippers non esistono più. Quei Los Angeles Clippers, almeno. Quelli capaci, fino a cinque anni fa, di compilare un record vincente – più vittorie che sconfitte – solo in due delle ventisette stagioni disputate nella Città degli angeli. Quelli con quattro misere apparizioni ai playoff, una volta sola oltre il primo turno. Quelli con il proprietario tirchio e razzista (Donald Sterling). Quelli con l'hype di un ingorgo stradale sulla four-o-five. Dimenticateli. Quello è il passato. Oggi è cambiato tutto. Proprietario (è arrivato Steve Ballmer, ex ad di Microsoft), allenatore (Doc Rivers) e ora anche maglie e logo. Perfino il nome è diverso. Non sono più i Los Angeles Clippers di una volta. Oggi, infatti, si chiamano L.A. Clippers. «Fa più cool», dicono quelli di Rpa, l'agenzia di Santa Monica che ha curato rebranding & restyling della seconda squadra cittadina. Ops, abbiamo detto seconda. Perché un altro grande problema dei Clippers da quando hanno lasciato San Diego è quello di aver condiviso la città con i Los Angeles Lakers. Loro sì perfetti nell'identificazione con la metropoli californiana, belli e vincenti, Hollywood con le sneaker ai piedi.

Dal 1999 Clippers e Lakers giocano nella stessa arena, lo spettacolare Staples Center, nella nuova downtown poi ribattezzata L.A. Live. All'interno, dal soffitto, pendono i 16 stendardi gialloviola che celebrano gli altrettanti titoli vinti dai Lakers, insieme alle maglie ritirate dei più grandi protagonisti di quelle imprese, nomi leggendari che sono sinonimi di Nba, da Magic Johnson a Wilt Chamberlain, da Jerry West a Kareem Abdul-Jabbar fino a Shaquille O'Neal. Poi, esattamente due anni fa – da poco nominato nuovo allenatore e plenipotenziario in casa Clippers – Doc Rivers dice basta. Fa coprire con sette gigantografie dei propri giocatori banner e maglie dei Lakers: «La nostra cultura sta cambiando, vogliamo essere vincenti». La storia gira qui, in questo momento. O forse a dire il vero prima ancora, destino vuole con un “furto” perpetrato proprio ai danni dei Lakers.

Nel dicembre 2011 – mentre l'Nba è in pieno lockout, tutti fermi e niente basket giocato, in nome del dio dollaro – Chris Paul, uno dei migliori playmaker della lega, viene ceduto da New Orleans a Los Angeles, sponda gialloviola, per far coppia con Kobe Bryant. L'affare clamorosamente salta e una settimana più tardi Paul diventa la nuova superstar dei Clippers, con cui esordisce il giorno di Natale. Ancora oggi, Rivers e Paul sono lo scheletro, l'ossatura, la colonna vertebrale di una squadra finalmente vincente. Ma non sono soli: la coppia di lunghi Blake Griffin-DeAndre Jordan salta e schiaccia come visto fare solo dai personaggi di Space Jam; J.J. Redick e Jamal Crawford assicurano quei punti che fanno dell'attacco dei Clips il più prolifico della lega; i nuovi arrivati Lance Stephenson e Josh Smith portano in dote ulteriore versatilità, permettendo combinazioni di quintetti quasi infinite. E poi è tornato a casa un losangelino doc come Paul Pierce, nel ruolo del grande veterano.

I Clippers contano un totale di 23 apparizioni dei propri giocatori all'All-Star Game, ma solo un titolo Nba vinto. Non a caso da Pierce, non a caso con Rivers in panchina, a Boston nel 2008. I due vogliono riprovarci, subito, perché per i Clippers questa sembra essere la classica annata make-it-or-break-it. «Ora o mai più? Forse sì – conferma l'allenatore – non ho problemi ad ammetterlo: c'è un momento per vincere e se te lo lasci scappare poi non lo acciuffi più. Questo è il nostro momento». Sembrava già esserlo lo scorso maggio quando, con un canestro all'ultimo secondo dell'ultima partita della serie – ovviamente di Chris Paul – i Clips avevano eliminato dai playoff gli Spurs campioni in carica, candidandosi così a degni successori. Erano anche andati in vantaggio 3-1 contro i Rockets al turno successivo, salvo poi diventare la nona squadra nella storia Nba a subire un'incredibile rimonta e perdere 3-4. Un crollo così “Clippers” da resuscitare fantasmi e dubbi di sempre. Non-ce-la-potranno-mai-fare. O invece sì, quest'anno. Forse.

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