Cultura

La grande illusione d’Egitto

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A COLLOQUIO CON ALA AL-ASWANI

La grande illusione d’Egitto

La realtà fu evidente l’anno scorso, quando uscì Come abbiamo fatto un dittatore?, una raccolta di articoli pubblicati sui giornali egiziani. Normalmente il problema di Ala e del suo editore era di selezionare le centinaia d’inviti a dibattiti di presentazione e serate per la firma del libro, cercando un pretesto plausibile per coloro cui dire no. Anche quella era una forma di arte.

Questa volta, per la prima volta, non arrivò alcun invito, né gruppi di lettori invocarono la sua presenza per la firma. Silenzio assoluto. Fu così che Ala al-Aswani, dentista apprezzato e scrittore, il più famoso fra gli arabi viventi, capì di essere entrato in un cono d’ombra profonda, insuperabile come una cortina di ferro. Fu principalmente una conferma perché già i suoi commenti settimanali sul quotidiano «Al Masry al-Youm» erano scomparsi dalla prima pagina e poi dal resto del giornale: lui li mandava, secondo contratto, ma non uscivano. Lui non chiedeva e dalla redazione non arrivavano spiegazioni. Anche qui silenzio assoluto. «Poi un amico mi ha spiegato di aver tentato di convincere chi pensava di poter tentare di convincere che in fondo la mia era una firma importante», racconta al-Aswani. «La risposta era sempre no. In realtà non c’era una decisione formale: per me come per molti giornalisti della televisione, d’improvviso scomparsi dal video. Era così e basta, tutti sapevano e nessuno decideva davvero».

L’autore di Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, 2006), Chicago (2008) e Cairo Automobile Club (2014) non ha scoperto a 58 anni di essere in quel cono d’ombra. «Sono seguito, ascoltato e tenuto sotto controllo da quando ero all’università. Il potere ai tempi di Hosni Mubarak aveva una formula: tu dici quello che vuoi, io faccio quello che voglio. Ma ora è peggio. C’era tutta una macchina dello Stato profondo che non ha mai smesso di funzionare anche dopo la caduta di Mubarak. Solo dopo la rivoluzione di piazza Tahrir abbiamo capito che in Egitto il problema non era lui ma il potere. Avevamo un vecchio regime, ora abbiamo il vecchio regime e i rivoluzionari in prigione».

Lo scrittore e il generale: Ala al-Aswani e Abdel Fattah al-Sisi. Il potere del presidente che ha tolto la divisa ma governa con durezza, efficienza ed efficacia come se il Paese fosse la sua caserma, con il consenso della maggioranza degli egiziani stanchi delle illusioni rivoluzionarie e spaventati da ciò che accade in Medio Oriente. E lo sguardo dello scrittore per natura libero. «Ho incontrato al-Sisi due volte, quando era il capo dei servizi segreti militari. Una volta mi ha invitato a discutere di un mio articolo. Abbiamo parlato per tre ore, era molto amichevole e ha elogiato il mio lavoro. Poi più nulla».

In un certo senso, l’unico momento in cui gli scritti di Ala al-Aswani non erano samizdat è stato fra la rivoluzione del gennaio 2011 e il breve governo dei Fratelli musulmani fino al giugno 2013. Mai i giornali erano stati così pieni di articoli e critiche entusiastiche come quando uscì nel 2013 Cairo Automobile Club, tradotto mirabilmente l’anno dopo in italiano da Elisabetta Bartuli. Eppure al-Aswani era un severo critico di Mohammed Morsi, il presidente di allora. «È solo perché i Fratelli musulmani non avevano avuto il tempo di colpire la libertà di espressione», spiega lo scrittore.

Ala al-Aswani ha lasciato il suo piccolo studio dentistico nel centro del Cairo, a Garden City. Ora vive a Città Sei Ottobre, un centro residenziale 30 chilometri distante da quelle strade caotiche e quei palazzi scrostati che sono la quinta dei suoi racconti. Le otturazioni al piano di sotto, la scrittura a quello di sopra. Entro il 2016 dovrebbe essere pronto La repubblica come se, il nuovo romanzo dedicato alla rivoluzione che ha esaltato e disilluso lui, gli egiziani e il resto del mondo. Ci sarà molto di personale in questo libro. «È il racconto sulla differenza fra realtà e illusione», spiega. «In una democrazia sembri quello che sei; in una dittatura hai un’immagine e una realtà. E le due cose sono molto diverse. La mia idea è che una dittatura ti spinge a essere ipocrita. Il capo vince le elezioni con il 98% dei consensi. L’intervistatore si congratula e il capo risponde: è stato difficile, sarà un impegno gravoso che sono costretto ad accettare. Tutti sanno che è una bugia ma tutti diventano ipocriti. È da quando sono bambino che vedo queste cose in Egitto».

L’assicurazione sulla vita creativa dello scrittore davanti al potere senza fine dell’ex generale e alla sua restaurazione, sono i libri che al-Aswani vende in tutto il mondo: le sue opere sono tradotte in 35 lingue e pubblicate in cento Paesi. Non scrive più su «Masry al-Youm» ma ha una rubrica mensile sul «New York Times», le sue riflessioni sono pubblicate sul «Guardian», «Le Monde», «El Pais», «L’Espresso». «Mi accusano di essere un agente della Cia, del Mossad, dell’Iran, del Qatar, della Turchia, a seconda delle vicende geopolitiche dell’Egitto». Ma le provocazioni si fermano qui.

Per spiegare perché un popolo tranquillo come l’egiziano fosse d’improvviso sceso in piazza Tahrir, una volta al-Aswani usò la metafora del cammello: un animale che non si arrabbia mai ma quando accade, morde. Ora anche lui deve constatare che la rivoluzione ha perso, il regime ha vinto e il cammello è tornato placido. «La gente pensa che al-Sisi stia salvando il Paese dal diventare un’altra Libia o un’altra Siria. Ma presto capiranno di non poter avere una vita decente senza cambiare. Solo il 20% degli egiziani era sceso in piazza, accade così in tutte le rivoluzioni. Ma non puoi capirne il significato se non ne comprendi la dimensione generazionale: in ogni casa i genitori pensano al lavoro, al salario da portare a casa. Ma i loro figli sono rimasti dei rivoluzionari. Se guarda le statistiche sulle elezioni presidenziali dell’anno scorso, i giovani non sono andati a votare, stanno aspettando la prossima occasione. In Egitto è accaduto qualcosa che non può più essere cancellato».

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