Cultura

Caproni e Rosselli, i maggiori del ’900

  • Abbonati
  • Accedi
ULTIMI POETI?

Caproni e Rosselli, i maggiori del ’900

In un saggio uscito un paio di anni fa, Giulio Ferroni ha parlato di Giovanni Giudici e di Andrea Zanzotto come degli “ultimi poeti” italiani. La formula era nel titolo e non poteva che provocare malumori. Ma quella del critico, più che una provocazione, era una dichiarazione di stima e di amore per i due poeti: e non priva di nostalgia per un’epoca conclusa della nostra letteratura, nella quale non era impossibile ma quasi ovvio constatare una continuità fra i tre protagonisti della prima metà del Novecento, Ungaretti, Saba e Montale, e i poeti delle due generazioni successive: Penna, Bertolucci, Caproni, Sereni, Luzi, Pasolini e, appunto, Zanzotto e Giudici, gli ultimi di un secolo, secondo Ferroni.

Ma ultimi o non ultimi che siano stati, vorrei proporre, come non meno caratteristici di fine Novecento, altri due nomi, quelli di Amelia Rosselli e di Giorgio Caproni. Credo (ma non ho fatto un’inchiesta) che siano stati i più letti e amati anche dopo la loro scomparsa. Non particolarmente studiati dagli accademici, intorno a loro si è però sviluppato un culto che li riguarda sia come “personaggi poetici” che come autori di testi da leggere e da rileggere anche per la sconcertante e magnetica singolarità della loro tecnica. Non mi pare che abbiano influenzato il modo di scrivere dei più giovani. Provare a imitarli era pericoloso. Ma leggerli costituiva un’esperienza che poteva spingere all’imitazione. Le loro parole si combinavano a formare versi inusitati, eppure vicinissimi alla prosa, o carichi di un’intensità lirica e drammatica che solo la rarefazione (Caproni) e la condensazione (Rosselli) della poesia riescono a raggiungere. In entrambi e in modo opposto, la singola parola e la singola frase assumono un peso specifico tale che sembra sempre portare il testo a un limite di rottura. Sono entrambi poeti di pensiero e poeti potentemente vocali. Scavano nella materia del quotidiano scavalcando di continuo e con assoluta naturalezza i confini tra il fisico e il metafisico, il noto e l’ignoto, il qui e l’oltre. La base della loro lingua è letterariamente piuttosto neutra, anche se non evita effetti (metrici, lessicali, tonali) che possono alludere alla tradizione. Sono infine due poeti percussivi e aforistici. Due poeti della solitudine, la cui voce cerca il lettore e lo trascina in un vortice di interrogativi e di ansie da “ultimo viaggio”.

Trascrivo queste considerazioni rimuginate durante la lettura di un imponente volume che raccoglie le interviste e gli autocommenti di Caproni: Il mondo ha bisogno dei poeti, a cura di Melissa Rota e con introduzione di Anna Dolfi (Firenze University Press, pagg. 510, euro 24,90). Anche Caproni, come Amelia Rosselli, aveva compiuto studi musicali e della tecnica musicale era al corrente fino al punto di precisare di continuo nelle sue interviste che non aveva mai voluto “fare il poeta”, aveva voluto piuttosto, da giovane, fare il violinista: ma rinunciando dolorosamente alla musica, forse il suono del violino era entrato nel suo personale uso poetico delle parole. Quella di Caproni è una poesia nervosa e nitida, tesa e incisiva. Negli ultimi anni, quasi incorporea, ma sempre più gestuale, impaziente e tagliente.

È stato ripetutamente notato che a metà degli anni Settanta, dopo il ritorno inaspettato di Montale con Satura (1971) e dopo la scomparsa di Pasolini, l’uscita di un libro come Il muro della terra (1975) apre l’ultima e più apprezzata fase dell’opera di Caproni. A volte bisogna aspettare una vita per essere “scoperti”. Da quel momento in poi, con Il franco cacciatore (1982), Il conte di Kevehüller (1986) e il postumo Res amissa (1991), Caproni scrive il suo diario o romanzo metafisico, nel quale il mondo si smaterializza, i fatti e le cronache emotive tendono a sparire e il corpo della poesia si riduce a una geometria di punti e linee spezzate. Nonostante i vuoti che circondano strofe e versi ridotti al minimo, il lettore avverte tuttavia una tessitura di meditazioni e di stati mentali. Il suo stile è ora filosoficamente epigrafico e paradossale: come se non ci fossero più né spazio da occupare né tempo da spendere e neppure percezioni fisiche da registrare. Caproni spezza continuamente l’enunciato con gli a capo, gli incisi, le parentesi. Lo tiene sospeso in aria e poi lo riafferra per legarlo di nuovo insieme con un paio di rime. Ha osservato una volta Mario Luzi, che fra i poeti della sua generazione nessuno come Caproni ha messo in scena la passione per un artigianato verbale tanto elementare quanto efficace.

Per chi volesse ripercorre dall’interno, in compagnia e conversazione con l’autore, le diverse vicende biografiche e letterarie di Caproni, leggere Il mondo ha bisogno di poeti è una necessità e un piacere. Ogni volta Caproni rilutta a parlare di sé, ma poi si decide. Tutte le questioni sollevate dagli intervistatori trovano una risposta: i suoi rapporti con l’ermetismo, il suo “antinovecentismo”, il suo essere un poeta di esperienze comuni, la sua attività di traduttore e di insegnante, la natura della sua religiosità negativa e della sua teologia ironicamente, sconsolatamente nichilistica. Un libro come questo, che raccoglie documenti dal 1948 al 1990, non è facile da riassumere e da recensire. È un libro indispensabile ai critici e ancora più indispensabile a chi sente che la forza di attrazione e persuasione della poesia di Caproni nasce proprio dal carattere dell’uomo, dalla sua bruciante schiettezza. Caproni forse ha superato ogni altro poeta del Novecento, perfino Ungaretti, nella convinzione istintiva che quella poetica è un’arte fondata soprattutto sull’economia di parole.

Dovendo segnalare un solo testo su cui attirare l’attenzione, scelgo il ritratto di Genova pubblicato nel 1979, che è, in prosa, uno dei capolavori di Caproni. Trascrivo qualche frase: «Con le sue salite, le sue rampe, le sue scalinate, i suoi ascensori pubblici, le sue funicolari e le sue strade disposte una sull’altra, Genova è una città tutta verticale. Verticale e quindi, almeno per me, lirica se non addirittura onirica (…) quei bui vicoli o caruggi al cui interno si elabora la digestione delle mercanzie sbarcate in porto per tramutarle in introiti (…) quella funicolare è un po’ come un’allegoria della nostra nascita, se non della nostra intera vita”.

Ho avuto un’ulteriore conferma: la prosa dei nostri poeti è tra le migliori e più ignorate del Novecento.

© Riproduzione riservata