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Guccini, l’Isis e la scelta di non scrivere più:…

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A COLLOQUIO CON IL CANTAUTORE

Guccini, l’Isis e la scelta di non scrivere più: «Viviamo i giorni delle canzoni inutili»

«Mi chiamo Francesco Guccini, sono nato nella prima metà del secolo scorso, sono ancora vivo, ho fatto il cantautore e sono qui per presentare una raccolta di racconti e un box antologico della mia carriera discografica». La location è Bologna, Osteria del Moretto, già Osteria di Gandolfi, «un luogo nel quale ho passato praticamente tutte le sere, tra il '68 e il ‘69».
Il posto «a cui più di ogni altro pensavo quando ho scritto la canzone “Osterie di fuori porta”», ammette senza girarci troppo intorno il Cantautore, con la «c» maiuscola.

Il posto in cui - aggiungiamo noi – probabilmente si sente più a casa quando torna a Bologna, «una città molto cambiata da quando ero ragazzo io, piena di confusione, ma forse il problema è solo che adesso ho una certa età». Il posto migliore al mondo, nell'accezione gucciniana del sostantivo, per presentare «Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto» (Mondadori, euro 15, pp. 150) e «Se io avessi previsto tutto questo. Gli amici, la strada, le canzoni» (in uscita il 27 novembre per Universal).

Il primo è un libro che raccoglie i racconti che l'autore de «L'avvelenata» ha scritto e pubblicato in ordine sparso dagli anni Sessanta a oggi, tutti con al centro il microcosmo di Pavana, il paese dei suoi nonni, sull'Appennino Tosco-Emiliano, nel quale ha trascorso i primi cinque anni di vita e in cui torna a tarda età. Il secondo è un cofanetto, disponibile nella versione deluxe da quattro o superdeluxe da dieci cd, che racconta, attraverso inediti riscoperti, rarità, duetti, collaborazioni, grandi successi e live mai pubblicati prima d'ora, in oltre quarant'anni d'attività. Un racconto in musica, un viaggio nella scrittura di uno dei musicisti più rappresentativi e influenti della sua generazione, dal suo debutto ufficiale nel 1967 («Folk Beat») fino all'ultimo album in studio del 2012 («L'ultima Thule», come «l'isola leggendaria che sta in cima al mondo, spesso citata nelle saghe medievali»).

Il tempo più usato, in questa sua lunga chiacchierata con la stampa, è il passato che, in bocca a questo grande affabulatore della parola cantata, diventa epica. «Una volta qui dentro – e indica l'osteria – era tutto pieno di studenti americani e greci. Era la fine degli anni Sessanta, cominciavo a muovere i primi passi nella musica, ci rintanavamo qua con le chitarre e cantavamo canzoni italiane, inglesi e greche. Gli americani venivano a Bologna per laurearsi in medicina, perché da loro l'università era a numero chiuso. Studiavano invece ingegneria i ragazzi greci, che sfuggivano dalla dittatura dei colonnelli».

Guccini è così, gli servi uno spunto e ti racconta una storia. Come quella dei suoi esordi musicali: «Nei primissimi anni Sessanta facevo il giornalista precario per la Gazzetta di Modena. Il primo anno mi pagavano 20mila lire al mese. Al secondo me ne diedero 10mila. Chiesi il motivo e mi risposero che era perché avevo preso due settimane di ferie». Poi incrocia un ragazzo di Modena, Alfio Cantarella, «come si incrociano i ragazzi che fanno musica. Aveva un gruppo, i Marino's, in cerca di un cantante chitarrista. Chiesi quanto guadagnassero e, tra tutte le incertezze, mi sembrava una paga migliore di quella che ricavavo dal giornalismo. E così mi buttai».

Beati anni del beat italiano. I Marino's divennero presto i Gatti. Poi arrivò per il cantautore il momento del servizio militare e i Gatti si accoppiarono con le Tigri di Maurizio Vandelli e ne nacque l'Equipe 84. «Al ritorno dal militare – spiega Guccini – loro ce l'avevano fatta e io mi ritrovavo iscritto all'Università». Affari del genere ti lasciano dentro qualcosa di irrisolto, «decisi allora di scommettere tutto sulla musica, abbandonai gli studi e tentai la carriera come autore». Il primo pezzo fu «Auschwitz» che l'Equipe 84 trasformò nella «Canzone del bambino nel vento».

Quindi il debutto con la Emi, con tre dischi «comprati da sei persone» prima di «Radici» (1972), il disco di «Incontro» e de «La locomotiva», quello dell'affermazione. «Coi tempi che corrono e la piega che ha preso il mercato discografico – commenta Guccini – neanche avrebbero scommesso su di me dopo tre dischi dalle vendite non esaltanti». E qui si arriva al tema dell'abbandono delle scene: «Le canzoni – spiega il cantautore – per me andavano e venivano. Ho smesso di scriverle perché cominciavo ad avvertire una certa fatica nell'attività di scrittura».

In uno scenario generale «pieno di canzoni inutili, scritte con lo spirito con cui un tempo si scriveva il disco per l'estate. Ma d'altra parte oggi ti danno il disco d'oro a 25mila copie vendute, una volta ce ne volevano un milione. E i talent show che fanno fiorire solo illusioni». Guccini sembra insomma un po' un reduce che ha lasciato le scene per non sentirsi esule. Si è ritirato in campagna, ma conserva una sguardo sul mondo.

Come quando gli chiedono se l'inedito «Allora il mondo finirà», scritto negli anni Sessanta, sia in qualche modo riconducibile a quanto accaduto a Parigi il 13 novembre con gli attacchi dell'Isis. Risposta negativa: «All'epoca temevamo che il mondo finisse per un attacco nucleare. Nulla di simile a quello che si vede oggi. Che semmai è descritto in “Libera nos, domine”». Brano che potrebbe sembrare scritto per l'11 settembre: «Da te, dalle tue immagini e dalla tua paura/ dai preti di ogni credo da ogni loro impostura/ Da inferni e paradisi da una vita futura/ da utopie per lenire questa morte sicura/ Da crociati e crociate da ogni sacra scrittura/ da fedeli invasati di ogni tipo e natura/ libera nos, Domine». Amen.

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