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Caro Tondelli

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Caro Tondelli

Caro Tondelli, io ti voglio bene. Ti sento fraterno, nei furori giovanili che hai vissuto e che io non ho vissuto, che hai potuto vivere e io non ho potuto vivere. Era, il tuo tempo, il tempo giusto per essere giovani; si era sempre giovani, giovani all'infinito. Potevi scrivere, come hai fatto in Altri libertini, che si impara «più da un pompino che da ventanni di esami» e ti dicevano: è vero, ha ragione Tondelli, la vita è così, come al Postoristoro.
Non ti sei mai accorto che il passo da giovani a giovanilisti non è che un tuffo nel burrone?
Caro Tondelli, ti voglio bene e ti invidio. Anch'io avrei voluto frequentare il Dams a Bologna negli anni Settanta, partecipare a una radio libera, leggere Lotta Continua, essere sempre giovani, giovani sempre, giovani infinitamente. Vivevi in una menzogna autentica. Potevi essere contro il mercato, essendo il mercato. A favore della letteratura, essendo il contrario della letteratura.

Caro Tondelli, ti racconto una storia. Studiavo alla Sapienza, era la laurea triennale. Che cos'era il Novecento per chi seguiva i corsi in quel luogo selvaggio? Eri tu. Tu insieme a Natalia Ginzburg e Paola Masino. Eri oggetto di “studi di genere”. Poi mi trasferii alla Statale di Milano, per la laurea magistrale. Lì ci sono gli spinazzoliani. Lì si studiavano: Rocco e Antonia, Tamaro, e poi Volo, Camilleri, Carofiglio. E indovina chi? Tu. Eri oggetto della sociologia della letteratura. Sei oggetto degli studi di genere e sei il mercato: sei anche la letteratura. Tu sei tutto. Tu sei ovunque. E tanti altri, più bravi di te, sono stati dimenticati. Dov'è Guido Morselli? Dov'è Antonio Pizzuto? Dove è finito Stelio Mattioni?
Caro Tondelli, la colpa è tutta tua. Nei tuoi anni bolognesi, Vincenzo Consolo pubblicava Il sorriso dell'ignoto marinaio (1976). Due anni prima, usciva il primo libro di uno dei più grandi scrittori italiani, Roberto Calasso. Si intitola L'impuro folle, l'hai mai sentito nominare? Poi ci fu Se una notte d'inverno un viaggiatore (1979). E poi? E poi sei arrivato tu.

Quel tuo libro era un piccolo libro. Uscì, per Feltrinelli, lo comprarono subito. Scrivevi frasi come «Io li filmerò. Filmerò i di loro amori, le lacrime, i sorrisi, le acque, gli umori i colori e le erezioni, i mestrui le sifilidi, le croste, gli amplessi i coiti e le inculate, i pompini e i ditalini, quindi i culi le tette e anco i cazzi filmerò». Poi: un'ordinanza di sequestro. Un procuratore chiese di interrompere la pubblicazione «per il suo contenuto luridamente blasfemo». Era una follia, certo. Avevi ragione, tu, certo.

Quel libro mediocre, privo di alcun immaginario se non, appunto, di un giovanilismo scialbo, quel libro, dico, quel libro meccanico, quel libro di impressioni che rallentano l'impressionismo, quel libro che tu definivi una jam session, ma che è esattamente il contrario, non naturale connotazione di un testo, ma un autentico esercizio estetico, quel libro divenne di culto. La censura non è che l'arma per creare piccoli miti. I miti li sfalda il tempo, però.

Caro Tondelli, tutte le fortune a te. Arrivarono in tanti a difenderti. Guido Davico Bonino ti invitò in una trasmissione di Rai Due e chiese ai telespettatori se uno con quel viso avrebbe mai potuto offendere il pudore di tutti. Tutti, davanti allo schermo, risposero di no. Un giovane dirigente del Pci, Massimo D'Alema, disse che il tuo era «un libro “politico”. Se non altro perché l'esperienza giovanile che racconta svela una “mancanza” di politica o, se si preferisce, una crisi della politica».

Tu, Pier Vittorio, eri contro il sistema ma eri del sistema. Nulla di male, davvero. Sarebbe stato bello però se fossi stato più autentico. È vero: rifiutasti l'offerta dei Vanzina di trarre un film da Rimini. Ma questo non basta. Eri un finto ribelle e un finto artista, giovane ma vecchissimo.

Caro Tondelli, che cos'è la letteratura? L'anno in cui tu esordivi, Andrea Zanzotto incontrò gli studenti di una scuola di Parma. Uno studente chiese: «Come mai la poesia contemporanea è spesso difficile da capire?». Il poeta rispose: «Pensate al filo elettrico della lampadina che manda la luce (…). Se devo trasmettere corrente a lunga distanza, mi servo di fili molto grossi e la corrente passa e arriva senza perdite a destinazione. Se metto, invece, fili di diametro piccolissimo, la corrente passa a fatica, si sforza e genera un fatto nuovo, la luce o il colore. Così accade nella comunicazione poetica, nella quale il mezzo è costituito dalla lingua. L'eccessivo addensarsi dei significati, dei motivi, il sovraccarico di informazioni, può però provocare un “cortocircuito”, una oscurità da eccesso, non da difetto».

Ecco: io credo che questa definizione di poesia sia perfetta per una definizione di letteratura. Tu non hai proceduto per smottamenti, oscurità da eccesso, neanche per oscurità. La tua lingua è il contrario del letterario: non porta da nessuna parte, segue sempre lo stesso binario, è il binario del pendolarismo. Starci dentro equivale a un viaggio con Trenord. C'è puzza di marcio, anche se il treno è nuovo. La gente mangia mandaranci e scatole di tonno. Arriverai sempre in ritardo. Non è disgustoso. Alla fine, da lettore, ti ci abitui e, lo ammetto, quasi quasi, in fondo ti piace.

Caro Tondelli, ai tempi di Altri libertini, uscirono libri importanti. Il nome della rosa era un capolavoro strutturale, strutturalista e postmoderno. Piaceva a tutti, ma dicevano fosse intrattenimento. Poi uscì l'esordio di Gesualdo Bufalino: Diceria dell'untore. Dissero che era troppo “alto”, nessuno l'avrebbe mai letto. Arrivò in classifica, ma questo non bastò. Per il tempo della memoria facile, sei rimasto tu, e non Bufalino. Tu eri considerato letterario come lui, ed era una grande menzogna. Sarà il tempo a smentirti. Credere nelle furie del tempo, sempre.

Caro Tondelli, potrei continuare all'infinito. Con il tuo Weekend postmoderno ti sei preso tutto. Così nel mondo ci sono Bolano, Pynchon e Foster Wallace, Krasznahorkai, e in Italia? Qui, il postmoderno saresti tu. Si può essere postmoderni scrivendo Camere separate? È quello il libro che più dimostra che la tua scrittura non era in grado di sostenere nient'altro che il giovanilismo. Un passo in avanti non era che un passo indietro: una melassa.

È tutta colpa tua. È colpa tua se ciò che non è letteratura viene scambiata per tale. È colpa tua se tutti giù per terra, se la guerra degli Antò. È colpa tua, anche se ti sembra tutto così distante, se resistere non serve a niente, se il bambino che sognava la fine del mondo, se atti osceni in luogo privato.

E poi? Poi sei morto così giovane, di Aids, in una giornata di inverno del 1991. Avevi solo trentasei anni. Per te provo simpatia. Una volta hai anche fatto intendere di avere poco talento. Avevi ragione. Ti voglio bene, Pier Vittorio, ma almeno la morte da giovane potevi risparmiartela. È così che si diventa un mito, dopo la censura. È solo un caso che tu non sia ancora finito sulle t-shirt, come Che Guevara.
Sei solo uno scrittore, ricordatelo: un piccolo narratore borghese.

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