Cultura

Gran concerto di Bob Dylan agli Arcimboldi blindati: nella cover delle…

  • Abbonati
  • Accedi
musica

Gran concerto di Bob Dylan agli Arcimboldi blindati: nella cover delle foglie morte tutta la precarietà dei tempi

Citando le famose parole di Dylan «the times they are a changin'» sono purtroppo tempi blindati quelli che stiamo vivendo al punto che per entrare agli Arcimboldi ad assistere alla prima data milanese di Bob Dylan il pubblico è stato controllato uno ad uno. Il luogo e l'occasione erano ritenuti a rischio dopo gli attentati terroristici dello scorso 13 novembre a Parigi che hanno colpito proprio una sala da concerti, il Bataclan. Anche il cantautore di Duluth ha chiesto delle misure ancora più blindate per il suo palco e backstage con un servizio di sicurezza rinforzato e allertato rispetto al solito. Nonostante tutto il concerto si è svolto nella normalità ed è stata una grande normalità con Dylan al meglio a destreggiarsi tra le sue creazioni e il tributo ai grandi crooner americani come da suo ultimo album 'Shadows In The Night'. Accompagnato da “His Band” il più grande songwriter in circolazione ha dato prova di una grande musicalità e sonorità che ha mescolato country, zydeco, blues e swing Personalmente lo abbiamo preferito più nel ruolo di folk singer con arrangiamenti in stile americana e non come crooner o in versione chansonnier per interpretare le “Foglie morte” in chiusura di set list. Ma è un dettaglio poiché il concerto del suo ritorno agli Arcimboldi a distanza di due anni è una conferma del bel periodo live che sta vivendo in questa fase artistica matura. Col panama chiaro calcato sul capo e le larghe tese a mettere al riparo lo sguardo Dylan si è mosso sulla scena più del solito, col suo stile da cow boy impacciato, concedendosi al pubblico generosamente fino a rivolgergli la parola. Sempre con gambe divaricate e la mano sinistra spesso sul fianco con piglio di sfida Dylan ha tirato fuori una voce cavernosa nei toni bassi e nasale in quelli acuti, mai perdendo il ritmo sostenuto della band e senza indugio nello speech del testo. Alternando la parte vocale talvolta con l'armonica a bocca, sempre di grande suggestione, si è messo al piano in versione bluesy mentre non ha mai imbracciato la chitarra. Del resto c'era la sua band formidabile a reggere la parte chitarristica, ben tre, e a dare un suono compatto e felpato in stile “americana”: un mix di vari generi e colori.Il menestrello come sempre ha proposto una set list diversa da quella annunciata, anarchica come la sua voce, unica e indefinibile alla maniera di certi bluesman del passato, da Charley Patton a John Lee Hooker con cui si esibì agli esordi al Greenwich Village, oggi assimilabile a quella di Tom Waits. Una voce rosso cupa dai colori autunnali in grado di restituire pur nella sua fragilità, come certe foglie che stanno per cadere, la forza delle parole: ed è questa la ragione di voler rendere omaggio a Yves Montand su testo di Prevert perché è “una canzone che ci assomiglia” e riguarda tutti noi.

© Riproduzione riservata