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Perché la Cina costruisce isole artificiali nel Pacifico, vuole…

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Perché la Cina costruisce isole artificiali nel Pacifico, vuole controllare le rotte commerciali e sfidare l'egemonia americana?

I nostalgici di guerre fredde, grandi giochi, equilibri di potenze, stabilità egemoniche, risiko e battaglie navali hanno un nuovo divertimento assicurato per i prossimi anni: le isole Spratly nel Mare cinese meridionale. I fatti: le Spratly costituiscono un arcipelago di oltre 750 tra isole, scogli, atolli e isole coralline compreso tra le coste di Malesia, Filippine e Vietnam. Oltre ai tre Paesi menzionati, le Spratly sono contese a vario titolo anche da Taiwan, Brunei e Cina. Essendo un territorio fondamentalmente inospitale – in larga maggioranza inabitato – ad accendere l'interesse delle potenze dell'area contribuiscono altri fattori: la ricchezza di giacimenti petroliferi, la posizione strategica nelle rotte del commercio, il fattore geopoliticamente intimidatorio derivante dalla loro occupazione e, soprattutto, l'incessante opera di costruzione di isole artificiali attraverso cui Pechino cerca di imporre il proprio controllo sui mari.

In ogni caso, tra antiche rivendicazioni (si va da documenti del XII secolo alla famigerata “Nine-dashed line”, messa a punto dal governo nazionalista cinese dopo la Seconda guerra mondiale e successivamente adottata anche dal governo della Repubblica popolare) e veti incrociati, la questione delle Spratly pareva indirizzata a rimanere poco più di una disputa regionale. È soltanto a causa della costruzione delle isole artificiali che la vicenda ha assunto uno status superiore: immediatamente sono arrivate le reazioni degli altri player coinvolti nella contesa: oltre allo scontato non riconoscimento di alcuna sovranità territoriale, gli Stati dell'Asia-Pacifico hanno reclamato l'intervento degli Usa i quali, fedeli alla dottrina Obama, si sono perlopiù limitati a generiche dichiarazioni di allerta e fumose minacce di future azioni, instillando nell'Amministrazione cinese due idee. La prima, che gli Stati Uniti «avrebbero abbaiato ma non agito» (parole di un diplomatico di Singapore); la seconda, che in ogni caso sarebbe stato più lungimirante terminare la costruzione delle isole prima dell'elezione del futuro presidente degli Usa.

Non si deve fare confusione: la vicenda si gioca su due piani distinti che è importante rimangano distinti anche nell'analisi. In un primo piano c'è la questione delle Spratly nuda e cruda, con le rivendicazioni territoriali che si sovrappongono e si incrociano e su cui, fondamentalmente, la posizione degli Usa è riassumibile in un rotondo “non ci interessa” e quella della Cina in un “ci interessa, sono nostri territori da secoli, lo facciamo per questo”. È una posizione rigida ma “regionale”: nel sostenerla, i cinesi stanno parlando in primo luogo ai vari Vietnam, Filippine, Malesia (Taiwan meno, per ovvie ragioni ontologiche) e solo in un secondo tempo agli Stati Uniti (in quanto “protettori”).

In un secondo piano c'è la vicenda sostanziale, il significante di tutto questo ripetitivo reclamare: l'area è già assurta a pivot geopolitico del presente e del futuro. Gli Usa hanno già deciso di stabilire il 60% delle proprie forze armate di mare e aria proprio nel'Asia-Pacifico entro il 2020. Il motivo è semplice: è lì che sta prendendo corpo l'unica potenza navale in grado di impensierire la supremazia americana. In un mondo che cambia velocemente, è per certi versi confortante sapere che “il controllo dei mari”, teoria strategica enucleata dall'ammiraglio Alfred Thayer Mahan nel 1890, goda ancora di estrema fondatezza pratica (non bisogna dimenticare, anche su un piano pacifista, che il 90% delle merci viaggia proprio per mare). C'è di più: Oceano indiano, Mare cinese meridionale e Mare cinese orientale rappresentano le rotte più vitali del commercio mondiale. Otto dei dieci più importanti porti al mondo sono nella regione e da qui transitano i due terzi dei bastimenti di petrolio. Nel solo Mare cinese meridionale passa il 30% dei trasporti marittimi mondiali e si produce il 10% dell'intera produzione della pesca mondiale. Infine, come detto, sotto i suoi fondali ci sono enormi riserve di petrolio e gas naturale.

In mezzo a questo doppio intreccio esiste un terzo piano, quello del diritto internazionale con i trattati e le convenzioni e quello della politica del giorno per giorno. Quando gli Stati Uniti hanno dovuto ammettere che quello che si vedeva dalle immagini satellitari erano hangar e piste di decollo costruite in maniera incessante su pressoché tutte le isole artificiali (addirittura tre piste di decollo/atterraggio in una stessa isola), l'idea di una militarizzazione dell'arcipelago è parsa non così peregrina. A quel punto, neanche le rassicurazioni contrarie del presidente Xi Jinping in visita di Stato in America a fine settembre hanno potuto evitare quella che è stata considerata da alcuni come la decisione “più assertiva” dell'intera politica estera dell'era Obama. Il 27 ottobre scorso, infatti, il cacciatorpediniere lanciamissili Uss Lassen ha navigato all'interno delle 12 miglia dalla costa di una delle Spratly artificiali, la Subi Reef, provocando la reazione sdegnata dei cinesi: due navi da guerra hanno “scortato” la Lassen, senza interferire nell'operazione ma comunque trasmettendo l'avviso di allontanarsi dalle acque cinesi. Di più, un portavoce degli Esteri di Pechino ha dichiarato che la Lassen è «entrata illegalmente e senza ricevere il permesso dal governo cinese», aggiungendo che l'operazione americana ha «minacciato la sovranità cinese». Facendo questo, Pechino è riuscita in un solo colpo a dare due risposte assurde: secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), ratificata dalla Cina e non dagli Stati Uniti, a potere reclamare le 12 miglia di acque territoriali sono soltanto le isole abitabili (che in aggiunta godono di 200 miglia di “zona economica esclusiva”, Eez) e le isole inabitabili (che godono delle 12 miglia ma non dell'Eez). Le cosidette “low-tide elevations”, le scogliere, reef in inglese, come appunto è il caso della Subi Reef, non godono di alcunché. Oltre a questo, l'operazione americana era annoverabile sotto una fattispecie precisa, chiamata Fonop, che sta per “Freedom of navigation”, un principio di diritto internazionale anch'esso codificato nella stessa Convenzione ratificata dalla Cina e non dagli Usa, che sostanzialmente prevede libertà di passaggio in acque territoriali di Paesi terzi anche a imbarcazioni militari che non attuino in modo minaccioso (Unclos, art. 17). A incorniciare il capolavoro diplomatico cinese – ma soprattutto a ridurre in scala la “bold move” obamiana – è arrivato il precedente di agosto, quando cinque navi da guerra cinesi hanno incrociato all'interno delle 12 miglia dalle coste delle isole Aleutine, in Alaska. In quel caso però una differenza c'era: quel giorno il presidente Obama era esattamente in visita in Alaska.

Certo, le Aleutine hanno una rilevanza strategica infinitamente inferiore alle Spratly, ma il punto è un altro. Il punto è l'orizzonte: che cosa si deve fare di fronte alla costruzione di un'imponente flotta navale (“controllo dei mari”) e alla rivendicazione (e probabile militarizzazione) di un'area considerata il pivot del futuro della politica egemonica americana? Gli Usa stanno attraversando l'era del disimpegno da quello che è stato il nucleo del proprio interesse internazionale per decenni, e cioè il Medio Oriente. Utilizzando un'espressione che piace molto ai più raffinati esperti di relazioni internazionali, gli Stati Uniti si stanno ritagliando un ruolo da “offshore balancer”, dopo i non felici esiti ottenuti dall'essere stati “onshore balancer” per lungo tempo. A questo punto, il cambiamento geostrategico produce nuovi equilibri geopolitici inestricabilmente legati all'altro polo gravitazionale, e cioè l'Asia. È in quell'area che la maggior parte dei Paesi reclama ancora la presenza americana (come “potenza egemonica benigna”, secondo la definizione dell'ex ambasciatore di Singapore a Washington, Chan Heng Chee). È in quell'area che si gioca il futuro. Obama ha già promesso ulteriori operazioni navali in difesa della “libertà di navigazione”, ma come abbiamo visto bisogna riconsiderarne la portata, giacché si tratta di schermaglie abbastanza comuni. C'è chi propone misure più assertive intravedendo nell'azione cinese la volontà di restaurare l'antico ordine delle cose in Asia orientale, una volontà di potenza che, proprio come spiegava l'ammiraglio Mahan, passerebbe – e in effetti sta già passando – attraverso il controllo dei mari. Per gli Stati Uniti trovare la misura dell'azione non sarà semplice: ricordando la lezione del più grande studioso di Relazioni internazionali di sempre, Kenneth Waltz, il perseguimento dell'egemonia a livello mondiale è “self-defeating”, in quanto la reazione che scaturirà negli Stati avversi (“balancing behaviour”) ne impedirà il raggiungimento. Un qualcosa che in Medio Oriente abbiamo visto molto nitidamente. Questo non significa che l'inerzia o le mezze provocazioni obamiane siano la soluzione, tutt'altro: sono necessarie azioni concertate con gli alleati della regione, ma soprattutto continuative e molto più incisive (ad esempio partendo dalla non neutralità sulle rivendicazioni sovrane di Pechino sulle Spratly) per far sì che “l'egemonia benigna” possa diventare realtà e soprattutto durare nel tempo.

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