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Confessione dalla fine del mondo

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Confessione dalla fine del mondo

Ucraina, fine anni Settanta, alla viglia di Natale il corpo di una bambina viene ritrovato in un fiume. L'assassinio è attribuito a un balordo, mentre è il primo di una serie di circa cinquantasei violentissimi omicidi – torture, mutilazioni, cannibalismo – perpetrati di lì a trent'anni da Andrej Čikatilo, passato ingloriosamente alla storia come il “mostro di Rostov” o al massimo con la definizione, tanto efficace quanto grossolana, di un vecchio thriller uscito decenni fa, dal titolo

Il comunista che mangiava i bambini.
Il nuovo romanzo di Andrea Tarabbia, però, non è la ricostruzione giornalistica delle gesta di uno tra i più efferati assassini mai esistiti, così come il precedente (Il demone a Beslan) non era solo la ricostruzione dell'assedio alla scuola cecena. Tarabbia si avvicina a un fatto attirato da un richiamo morale e per nulla retorico (dimenticate le candele accese sui balconi), e lo usa per indagare – senza alcunché di morboso, miracolo – il Male nella e della Storia attraverso la scrittura, in una tradizione che va dai Demoni di Dostoevskij fino a Carrère o Vollmann.
Non solo, usando una lingua visionaria eppure asciutta (uno stile desolato, vorrei dire), Tarabbia osa narrare la vicenda in prima persona, proprio dal punto di vista di Čikatilo. E attraverso una sorta di confessione allucinata, disordinata dal punto di vista cronologico ma compattissima, racconta la vicenda di un uomo e di un universo in disfacimento dal più fondo dei pozzi, ossia la testimonianza di «un contemporaneo della fine del mondo», chiuso in una specie di Cremlino inviduale (o “nero”, come lo chiama in sogno), a elaborare l'emarginazione in un'assurda tragedia collettiva. Senza mai estetizzare l'orrore, questo libro riesce a farci sentire non solo umori, odori, fiato, ma la più cieca delle solitudini, capace di rispecchiarsi solo in un'altra solitudine – simmetrica, reciproca, ancora più abissale – ossia quella delle vittime, alle quali non a caso Čikatilo cavava gli occhi.

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