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Non sappiamo dire «ho sbagliato»

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Non sappiamo dire «ho sbagliato»

«Sì, ho sbagliato»; «Già, avevi ragione tu». Quante volte avete sentito e pronunciato frasi del genere, nella vostra vita? Spero di non sbagliarmi – appunto – ma credo sia merce decisamente rara. Capita ogni giorno di fare degli errori evidenti: numeri che non tornano, scartoffie compilate male, citazioni false, appuntamenti per cui si era detto e scritto alle otto e invece eccoci alle nove e venti, e così via.

Ma perché è così difficile ammettere di avere avuto torto? Il problema riguarda tutti, ed è trasversale: va dalla discussione con il collega che si impunta anche quando i dati gli danno contro, passando per il litigio parossistico con il parente a cena o con il conoscente su Facebook, fino al giornalista che non può tollerare di dover scrivere una rettifica.
Sgombriamo il campo dalla malafede assoluta, per cui i concetti di verità o falsità e di buone o cattive ragioni non contano nulla: conta solo il dar battaglia e trollare fino alla morte. Restiamo così con una fetta di persone normalissime, che ogni tanto fanno errori, ma si dannerebbero l'anima piuttosto che confessarlo. A nessuno piace sbagliare, è ovvio; ma da qui a essere del tutto incapaci di mostrarsi in fallo c'è un abisso psicologico ed etico. Di nuovo: perché? Il tema, sorprendentemente, non è molto indagato. Io vorrei affrontarlo da tre punti di vista diversi ma correlati fra loro: come una questione di potere, come una questione pedagogica e infine — dato che scrivo questo articolo oggi e non trent'anni fa — come una questione tecnologica.

Una questione di potere
Nel saggio Mistakes Were Made (But Not By Me), Carol Tavris ed Elliot Aronson identificano l'humus su cui cresce l'incapacità di ammettere sbagli: la dissonanza cognitiva. È uno scenario in cui due nostre credenze vanno in conflitto, ad esempio sapere che le sigarette fanno male ma continuare a fumare due pacchetti al giorno. In una situazione di questo tipo, il cervello reagisce spesso con un'operazione di auto-inganno. Gli esempi si sprecano: ho tradito il mio partner? Non è colpa mia – e comunque, se l'ho fatto, probabilmente se lo meritava. Io penso di essere una persona razionale e con forti valori morali e tu non sei d'accordo con me? Vuol dire che sei un cretino, o un mostro. Faccio una sparata maschilista o razzista? Ma suvvia, era una provocazione! Ho sostenuto che quella persona è colpevole anche se poi è risultata innocente? Eh, ma chissà se è innocente davvero...
Insomma: la necessità di rimettere insieme lo squarcio prodotto dalla dissonanza cognitiva è fortissima. Una via è quella di farsi un esame di coscienza e capire se abbiamo sbagliato qualcosa: succede, magari non ne sapevamo abbastanza, magari ci siamo comportati male. L'altra, molto più economica e semplice, è quella di pensare che la colpa sia sempre altrove: come sintetizzano Tavris e Aronson, «Se sono stati commessi degli errori, la memoria ci aiuta a ricordare che sono stati commessi da qualcun altro». La tesi dei due psicologi sociali è un ottimo punto di partenza; ma io credo ci sia di più. Credo che il cuore del problema giaccia in una tendenza più radicale: quella di trattare molti rapporti come se fossero implicitamente dei rapporti di potere. Forse dipende anche dalla loro crescente precarietà, nei sentimenti come sul lavoro. Poco importa: l'idea di base è che in ogni relazione ci sia una parte forte e una parte debole, un vincente e un perdente, e farsi cogliere in fallo significa oscillare pericolosamente verso il lato sbagliato.
Non vogliamo confessare un errore perché temiamo che comporti una squalificazione dell'ego, per quanto piccola, e dunque una perdita di potere sulle cose e sugli altri. Meglio negare a oltranza. Meglio deresponsabilizzarsi a oltranza. Meglio rovesciare la colpa altrove, lamentarsi, invocare ragioni di benaltrismo, o litigare fino allo stremo. Alla fine, sarà come se nulla fosse accaduto. Se l'ipotesi è sensata, l'ammissione del torto è vista non come la correzione di un enunciato (una questione relativa al mondo, a come sono di fatto le cose), bensì come una diminuzione della propria soggettività (una questione che riguarda me). E di conseguenza, chi ti corregge non sta migliorando il complesso dell'informazione: sta cospirando contro di te. Lo stronzo.
Di nuovo, questa logica agisce nella stessa maniera per il politico che non vuole ammettere di avere stretto patti con un mafioso e per il padre che non ha alcuna voglia di vedere sminuita la propria autorità sui figli. E all'inverso, vale per l'elettore che crede così tanto in quel politico da non voler vedere i fatti, così come per il figlio che teme talmente il padre da non osare contraddirlo. Potere, né più né meno: ci siamo dentro tutti, con gradazioni differenti.

A scuola di argomentazione
A tale fatto di ordine generale se ne somma uno di ordine strettamente educativo: non si insegna mai ad argomentare con chiarezza. Né a scuola, né nella vita. La capacità di ragionare viene data per scontata, quando invece molto spesso, in discussioni di ogni genere, emergono errori logici e fallacie del ragionamento. Basta leggere libri come Strumenti per ragionare di Boniolo e Vidali (Bruno Mondadori 2011) o il recente La buona logica di Legrenzi e Massarenti (Cortina 2015), per accorgersene. Il risultato è che non essendo abituati a discorrere in maniera piana e coerente, la critica o la reazione alla medesima si esprime molto spesso in forma di sarcasmo. La logica ci insegna fra le altre cose l'umiltà, ed è completamente impermeabile a qualunque forma di potere. In un discorso pubblico dove la logica va a farsi benedire, diventa particolarmente difficile ammettere – anche a se stessi – di non avere ragionato bene.
Abbiamo una tesi e dobbiamo difenderla anche a costo di essere nel torto più marcio; i fatti si possono sempre rigirare o smontare; le fallacie del ragionamento non ci riguardano, al limite riguardano gli altri; e così via. La conseguenza peggiore è che tutto diventa materia di relativismo assoluto e intransigente: tutto è sempre passibile di revisione, ha un doppio o triplo senso che gli altri non hanno capito. Vince invece chi tiene duro, chi grida più forte, chi riesce a essere più simpatico, chi intimorisce di più l'interlocutore. L'importante non è dunque ripristinare la verità, bensì tenere salde le redini sull'ordine del discorso. Di come sono andate le cose, in questa dinamica, importa poco: e più la propria forza assertiva cresce – il giornalismo e la politica, di nuovo – più tale prassi negazionista si fa rilevante e pericolosa. Se persino quello si comporta così, perché diamine io dovrei fare diversamente?

Tutta colpa dei social media?
A questo punto qualcuno obietterà: «Eh, ma prima non era mica così! Prima le cose si dicevano in faccia: con la comunicazione digitale le cose sono peggiorate». Naturalmente non è così. Non sono i social media ad avere generato l'incapacità di confessare i propri errori (figuriamoci): l'hanno resa solo molto visibile e diffusa, come per tanti altri aspetti della nostra vita quotidiana. Oggi chiunque ha la possibilità di rendere un'opinione pubblica e di discutere o litigare con chiunque altro. Se questo da un lato è un bene – perché erode molti piedistalli – dall'altro mostra in modo singolarmente compiuto come l'incapacità di argomentare sia legata al timore di perdere il proprio potere. È come se ammettere pubblicamente di avere torto comporti una diminuzione del proprio status: e mai come ora tale “status” è quantificabile (in termini di numero di follower, di like, di retweet) e gestibile (possiamo rimuovere commenti imbarazzanti e foto cretine facendo finta che nulla sia accaduto, sperando nella prossima polemica per riacquistare legittimità sociale). Ci consente insomma di edificare un'identità potenzialmente perfetta e continuamente sorvegliata, da noi e dagli altri — da chiunque. Dire di avere sbagliato sembra aprire una crepa sulla sua superficie lucida: non sorprende che si faccia di tutto per evitarlo.
E ancora. Se prima moltissime conversazioni erano per lo più private, ora tendono a essere sempre più pubbliche. (Mi sorprende sempre come ci si scambino considerazioni o battute molto personali citandosi su Twitter invece di usare forme di messaggistica diretta). Questo potrebbe avere un valore positivo: tracciare un contesto, un coro di ragioni, la possibilità di appellarsi ad altri per sostenere una tesi, fornire dati, argomentare con maggiore chiarezza, delimitare l'area dell'errore. Spesso, invece, degenera in una rappresentazione teatrale: al centro il palcoscenico dove si dibattono due individui, e intorno la platea che tenderà non a schierarsi con la verità o il dubbio, ma con la forza.
Dunque: sì, sbagliare è tremendamente irritante, a volte comporta seri rischi professionali, e dovremmo sforzarci tutti di non fare errori. Ma ammettere di averne fatto uno fa bene a chiunque, se stessi compresi: ci fa capire che non siamo esseri infallibili (per cui tutti gli altri sono pazzi o in cattiva fede), e contribuisce ad aggiustare un pezzo di mondo che avevamo rotto, consapevolmente o meno. Serve solo un po' di onestà intellettuale — e neanche tutto questo coraggio.
No, un momento. Serve anche una società dove chi compie un errore non venga considerato come un incapace a vita, un debole, o un individuo da lapidare. Lo studioso di diritto Eugen Wiesnet dedicò il suo libro Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita al diciannovenne Hans K., tornato al villaggio d'origine dopo tre anni in un carcere minorile. La gente continuava a chiamarlo furfante e galeotto. Dopo un mese e mezzo si impiccò, lasciando una lettera in cui scriveva: «Perché gli uomini non perdonano mai!».

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