Cultura

Reporter della povertà

  • Abbonati
  • Accedi
Libri

Reporter della povertà

  • –Claudio Giunta

Gli anni che precedono la seconda guerra mondiale sono stati gli anni d’oro di John Steinbeck. Nel 1936 pubblica La battaglia, un racconto che parla degli scioperi dei raccoglitori di frutta nelle piantagioni della California, l’anno dopo Uomini e topi, che vince il premio Pulitzer; poi (1938) i racconti della Lunga vallata, e nel 1939 Furore, che vende un’infinità di copie e diventa subito, a distanza di pochi mesi dalla stampa, un film altrettanto fortunato di John Ford. Poi gli Stati Uniti entrano in guerra, e la guerra cambia, se non proprio tutto, molto, come spiega bene Cinzia Scarpino nella postfazione al reportage di Steinbeck I nomadi, tradotto ora per la prima volta da Longanesi: «Con la Seconda guerra mondiale, l’interesse nazionale – politico e intellettuale – abbandonerà migranti e fittavoli. La pubblicazione, nel 1941, di Sia lode ora a uomini di fama di Evans e Agee segnerà un colossale fiasco di vendite».

Oggi nei paesi anglosassoni i romanzi di Steinbeck continuano vendere molto, e ad essere letti soprattutto a scuola. Uomini e topi, in particolare, è breve, semplice, dice una cosa chiara, è il libro ideale da assegnare alle matricole per una tesina. La cosa chiara che dice Uomini e topi la dice anche Furore: bisogna comportarsi in maniera umana, bisogna essere gentili con le persone in difficoltà, quelli che stanno bene devono aiutare quelli che stanno male. Troppo semplice, troppo ingenuo? Presso i critici, i lettori maturi, Steinbeck non gode di buona stampa, non ne godeva già negli anni Quaranta e Cinquanta, quando Edmund Wilson lo liquidava come «uno scrittore di secondo o terz’ordine». Troppo rozzo, ideologico, predicatorio, troppo dedito al “messaggio”, e i suoi libri troppo saturi di personaggi nei quali – come Lawrence diceva dei Malavoglia di Verga – l’autore travasa la propria intelligenza e il proprio senso tragico, attribuendo loro una consapevolezza di sé che non è credibile possano avere. È vero: nel suo tentativo di commuovere e di mobilitare Steinbeck scrive anche delle brutte pagine. Ma sono pochi gli scrittori e i libri del Ventesimo secolo che hanno avuto una tale, concreta, positiva influenza sulla vita delle persone. Furore, il libro e poi il film, mise davanti agli americani un pezzo di realtà che gli americani ignoravano, o della quale non immaginavano la gravità; e per avere la misura dell’impatto anche popolare dei libri di Steinbeck si può leggere il saggio di Michael Kazin American Dreamers. How the Left Changed a Nation o, più a portata di mano, si possono vedere i pochi secondi del trailer che lanciava, nel 1939, il film Furore (si trova su YouTube). «Il progresso morale – ha osservato una volta Rorty – ha contratto in secoli recenti un debito maggiore nei confronti degli specialisti del particolare (storici, romanzieri, etnografi, giornalisti smaschera-scandali, per esempio) che non nei confronti degli specialisti dell’universale come i teologi e i filosofi [...]. La Condizione della classe lavoratrice in Inghilterra di Engels e gli scritti di persone come Harriet Beecher Stowe, Fenellosa e Malinowski hanno fatto più della Dialettica della natura di Engels, o degli scritti di Mill e Dewey, al fine di giustificare l’esistenza dei deboli emarginati agli occhi dei potenti integrati». I libri di Steinbeck degli anni Trenta possono non aver retto alla prova del tempo, ma anche lui ha il suo posto in questo elenco di «specialisti del particolare». Difficile, forse impossibile trovarne l’eguale nella letteratura europea del Novecento.

I nomadi è il titolo (non d’autore) che raccoglie i cartoni preparatori di Furore: sette articoli che Steinbeck pubblicò sul «San Francisco News» nell’ottobre del 1936. I nomadi del titolo sono le famiglie che nel corso degli anni Trenta arrivarono in California dagli stati centrali, spinti ad est dalla siccità. Gli articoli contengono gli ingredienti che si troveranno nel romanzo, ma senza le lungaggini e i moralismi di tante pagine del romanzo. I nomadi arrivano in California perché sperano di poter lavorare come stagionali nelle piantagioni («Volete lavorare?», è una delle domande che rintoccano, un po’ sinistre, in Furore e nel film di Ford). Ma le stagioni sono troppo brevi perché coi pochi soldi guadagnati si possa campare tutto l’anno, oppure il lavoro se l’è già preso qualcun altro: i caporali avevano parlato di mille posti, invece ce ne sono soltanto cento, l’offerta di manodopera supera la domanda, i salari si asciugano.

Da reporter competente in povertà, Steinbeck presta attenzione a quegli aspetti della vita pratica che sfuggono alla statistica, o che per delicatezza o superficialità vengono passati sotto silenzio nelle cronache. I nomadi sono sporchi, ignoranti, impigriti e istupiditi dall’incuria; vivono in baracche di cartone in cui entrano il caldo, il freddo, la pioggia, i topi; mangiano male, orinano e defecano all’aperto, un piccolo incidente – una malattia, un infortunio che non gli permetta di camminare – può decidere della loro vita. Il migrante, osserva Steinbeck, «è costantemente indebitato. Deve lavorare. Possiede un solo bene che valga la pena pignorare per saldare i debiti, ed è la sua auto; e mentre gli uomini soli possono passare da un racconto all’altro spostandosi in treno e con l’autostop, se un uomo che ha famiglia perde la sua auto, muore di fame» (di fatto, chi ha letto Furore o visto il film di Ford sa che l’autocarro che trasporta la famiglia in California è sempre sulla scena, e sa con quanta trepidazione tutti i membri della spedizione sorveglino gli affanni del motore). Tutto questo può suonare famigliare, perché di poveracci che emigrano ce ne sono anche oggi; ma in realtà bisogna pensare a un’epoca nella quale la rete di protezione sociale era assai più evanescente di quella odierna: e proprio a rafforzare questa rete mirarono, con successo, gli sforzi di Steinbeck.

Il volumetto è aperto da un’introduzione di Charles Wollenberg e chiuso dalla citata postfazione di Cinzia Scarpino, entrambe ben scritte e piene di notizie e osservazioni interessanti; in qualche caso il lettore ne vorrebbe addirittura di più, di notizie (cosa vuol dire «piccoli proprietari terrieri jeffersoniani»? Perché lesinare sulle note? Per non scoraggiare il pubblico? Ma se uno compra un libro degli anni Trenta di Steinbeck non si lascia mica scoraggiare facilmente, vuole sapere tutto...). C’è inoltre un dossier fotografico – foto scattate dalla grande Dorothea Lange – che vale da solo il prezzo del libro, e che emoziona anche per una ragione che si fa fatica a confessare: perché abbiamo disimparato a pensare che la miseria possa toccare, in massa, anche i bianchi caucasici, e invece i diseredati di I nomadi sono tutti così, tutta «solida razza americana», come scrive Steinbeck. La foto più celebre della Lange è quella della Migrant Mother, una specie di manifesto della Grande Depressione; ma qui ce ne sono certe altrettanto belle, tra le altre quella di una «famiglia nella contea di Tulare»: la madre, alta, bionda, bella, quasi elegante, con un figlio in braccio e due accanto a sé, potrebbe essere una foto per una rivista patinata, ma uno dei bambini ha addosso una specie di tuta da operaio, e sullo sfondo c’è il tugurio in cui vivono.

Insomma, questo è un libro che fa riflettere e da cui si imparano delle cose; ed è anche un ottimo viatico, se non alla rilettura di Furore, che resta un librone minaccioso, alla visione del bel film di Ford, anche questo caricato da qualche altruista su YouTube.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

John Steinbeck, I nomadi, trad. di F. Cosi
e A. Repossi, Il Saggiatore, Milano,
pagg. 112, € 14.00