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Mille anni di giurisprudenza

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Mille anni di giurisprudenza

Questo libro, d’importanza capitale, pubblicato negli Stati Uniti nel 1968 ed ora, a quasi cinquanta anni dalla sua uscita, tradotto in italiano (grandissimo merito dell’Istituto italiano di studi filosofici e di Rocco Giurato, traduttore e introduttore), illustra il ruolo occupato dai giudici e dal diritto giurisprudenziale nella società in un millennio, prendendo in esame Paesi tanto diversi come l’Inghilterra, Roma antica e l’Italia medievale, la Francia e la Germania (nonché gli Stati Uniti, che sono sempre presenti come pietra di paragone). Sullo sfondo ci sono il brulichio delle società, l’assetto dei poteri politici, i governanti. In primo piano i giuristi, uomini di toga, accademici, avvocati, il modo in cui si formano, come interagiscono, come si esprimono e decidono. Obiettivo del libro – confessa l’autore – è di mostrare gli effetti duraturi dell’esperienza storica sui metodi e sugli atteggiamenti di oggi, di valutare – diremmo noi – il peso del passato sul tempo presente.

Nato nel 1959 come Cooley Lectures, poi sviluppato in volume, si colloca tra i pochi grandissimi lavori storico–comparativi esistenti al mondo. L’autore, John Philip Dawson (1902 – 1985), professore dal 1927 al 1952 all’università del Michigan, poi, dal 1952 al 1973, ad Harvard, era stato allievo, ad Oxford, di Paul Vinogradoff, a sua volta legato a Frederic William Maitland. Il titolo del libro è ispirato a un passaggio dei Commentaries (1768) di Blackstone, in cui l’autore parla dei giudici «depositari del diritto, oracoli viventi».

Il libro – osserva il curatore - «è un grande affresco comparativo diacronico, dettagliato e di ampio respiro – e per molti aspetti insuperato – del diritto giurisprudenziale in Occidente a partire dalle premesse dell’esperienza romana fin quasi ai nostri giorni». Dawson traccia un percorso che vede due strade diverse, quella romana e inglese, e quella tedesca e francese. Ma le intersecazioni tra le diverse strade sono frequenti. Francia e Germania, Paesi di civil law, usano il diritto romano e sono separate dall’Inghilterra, anche se in realtà esse, prima del 1800, adoperano il diritto romano in modo diverso. E nel 1900 si accentuano le somiglianze tra Germania e Stati Uniti, anche se i due Paesi appartengono a tradizioni culturali diverse.

Nell’antica Roma il diritto è giurisprudenziale, ma mancano le raccolte di sentenze e queste non sono motivate. La rinascita medievale del diritto romano, invece, è fondata sui legum doctores: il primato spetta alla dottrina, al parere degli esperti – giuristi accademici e insegnanti.

In Inghilterra, anche grazie al vigore della Monarchia, si crea un ceto di giuristi che forma un tutto unico di giudici e di patrocinatori. Ma l’importanza delle corti non si afferma fino a quando, nel 1800, si pubblicano raccolte affidabili di sentenze, che consentono di orientarsi sui precedenti, e si afferma lentamente l’uso di motivare le decisioni giudiziarie.

Nella Francia di Antico Regime il ruolo delle corti è importante: esse rappresentano una forza conservatrice, anche a causa della venalità delle cariche e alla indistinzione, specialmente a Parigi, tra funzione giurisdizionale e funzione normativa. Anche per questo, le corti vengono travolte dalla Rivoluzione. Dal 1800 esse avranno un ruolo limitato non come riflesso della diffusione del diritto romano, ma per reazione all’eccessivo potere e alle pretese della magistratura francese di Antico Regime. Un altro cambiamento di fondo è introdotto dai rivoluzionari, contrari alle procedure giudiziarie segrete, quello dell’obbligo di motivazione delle decisioni giudiziarie. Solo alla fine del 1800 scienza giuridica e giurisprudenza si riavvicinano.

Diverso il percorso della Germania, dove, dopo il periodo dominato dagli “Schöffen”, enunciatori di diritto, con la ricezione secentesca del diritto romano, si afferma il diritto della cattedra, il diritto viene “scientifizzato”, il “sistema” assume un ruolo centrale, trionfano i dotti. Questi ultimi sono però capaci di combinare la struttura concettuale del diritto romano dell’Italia medievale con l’attenzione per i bisogni dei tempi. Anche in Germania il cambiamento è prodotto dalla lenta affermazione, nel 1800, delle motivazioni delle sentenze e si avviano due percorsi paralleli, quello dei giuristi accademici, che lavorano al “sistema” pandettistico, e quello dei giudici, che si valgono delle clausole generali per creare diritto.

In tutta la vastissima analisi di Dawson dominano tre aspetti importanti: la formazione dei giuristi (extra universitaria in Inghilterra, universitaria in Francia e Germania), la pubblicazione delle sentenze e la loro motivazione, «prodotto della modernità» osserva Dawson, che servono a dimostrare che il caso è stato deciso con giustizia e a orientare l’evoluzione della dottrina giuridica e la decisione di casi futuri. Tutta la ricerca di Dawson è ispirata alla critica propria dei «realisti» americani, dell’«irrigidimento delle categorie», che l’autore chiama «noto disturbo dei giuristi», amanti di un «mondo troppo ordinato, concepito in maniera troppo sistematica e troppo armoniosa per corrispondere alla realtà».

La situazione, rispetto al momento nel quale si ferma il grande affresco di Dawson, è andata cambiando. Ne sono due segni importanti le opere di due studiosi, ambedue americani, Bruce Ackerman e John Merryman. Il primo è andato ricostruendo la storia costituzionale americana facendo meno ricorso alla giurisprudenza della Corte Suprema e mettendo in primo piano le grandi leggi. Quindi, riscoprendo, in un Paese di case law, il diritto legislativo. Il secondo ha spiegato a noi italiani che la teoria per cui è solo il legislatore a creare diritto rappresenta soltanto il “folklore”, dietro al quale si nasconde una realtà di corti che contribuiscono quotidianamente a costruire l’ordine giuridico nel quale viviamo.

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John Philip Dawson, Gli oracoli del diritto, a cura e con un saggio introduttivo di Rocco Giurato, Napoli, Istituto italiano di studi filosofici, pagg. 682, senza indicazione di prezzo