Cultura

Il più oltre di tutti

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Il più oltre di tutti

Quando nel 1971 uscì Il cinema italiano: servi e padroni (Feltrinelli), Goffredo Fofi non aveva neanche trentacinque anni ma era all'apice della sua incazzatura. Il sottotitolo suonava minaccioso: «Un pamphlet sugli opportunismi e le fughe dei registi, le miserie e i condizionamenti del mondo del cinema». La promessa era mantenuta. Si sparava a zero su autori, film, critica, produttori e tutta quanta la casta cinematografara. Ai suoi occhi il cinema italiano era un ammasso di statalismo piccolo-borghese o, come usava dire all'epoca e chissà per quanto ancora, di «fascismo mascherato». Un cinema inservibile alla causa, nemico della pratica rivoluzionaria e pure brutto. Servi e padroni era uno smontaggio-con-scavalcamento-a-sinistra dell'egemonia. Uno Scrittori e popolo applicato al cinema, ma privo di quel galateo accademico che impone di dire le cose a metà, cui invece doveva attenersi il libro del professor Alberto Asor Rosa. Fofi aveva ragione su tutto. Tranne che sul punto archimedico che reggeva l'argomentazione. Per lui il problema del cinema italiano del 1971 non era la grave involuzione produttiva, lo stallo legislativo, la perdita di pubblico. Il problema è che c'era poca sinistra. Erano gli anni di Ombre Rosse, dei pugni alzati dentro i cineclub, dell'underground, del terzo cinema. Era tutto “new” o “free” o “experimental” e soprattutto giovane. Dev'essere stato bello. Si saranno divertiti un sacco. Al fondo dell'incasinamento dei gruppi, gruppetti e groppuscoli c'era un mondo ordinato, chiaro, netto. Di qua l'impegno, la verità rivoluzionaria, l'arte. Di là, il sistema, l'intrattenimento, l'industria. Fofi era incazzato perché le cose andavano male. Per dire, quelle bandiere rosse che sfilano in Novecento di Bernardo Bertolucci non sono di sinistra, ma una subdola manovra con cui l'industria culturale si finge rivoluzionaria, mentre lascia tutto così com'è. Invece di finanziare film con cui abbattere se stesso, lo Stato cinematografaro ci teneva buoni con la pseudo-denuncia del film civile o, peggio, con il cinema di genere, robaccia piena di zoom, sesso e sparatorie messa su per guadagnare un po' di soldi con il pubblico delle seconde e terze visioni, salvo costruire la fortuna di Quentin Tarantino una ventina d'anni dopo. Negli anni Settanta, l'idea che i film devono cambiare il mondo, che il cinema è il proseguimento della rivoluzione con altri mezzi e il critico è l'intellettuale «più oltre», come spiega il professor Nicola Palumbo, responsabile del cineclub di Nocera Inferiore in C'eravamo tanto amati, giungeva al suo compimento extra-parlamentare e terzomondista. L'industria del cinema italiano, invece, era già moribonda. Oggi, per il giovane lettore che ha scoperto Fofi con le recensioni su Internazionale e che faticherebbe a capire che La classe operaia va in paradiso era un film fascista, arriva Il cinema del no: Visioni anarchiche della vita e della società (eleuthera). Il titolo evoca Elio Vittorini (Uomini e no), la mitologia deleuziana del Bartleby di Herman Melville (I would prefer not to), Vasco Rossi (C'è chi dice no), i no global, i no tav, ma non il teatro nō. È il «no» della vocazione minoritaria, resistente, anarchica. La sinistra è scomparsa, la cultura non ne parliamo neanche, l'incazzatura no. Anche se ora è diluita nella cifra del ricordo e della nostalgia, com'è logico che sia. La «visione anarchica» offre una rete abbastanza elastica per contenere tutto il cinema «necessario» e fare un po' il punto della situazione, perché come dice Fofi in apertura del libro, «grande è la confusione nel campo della ribellione». Già.

Sono quei casi in cui il frasario imporrebbe di dire che l'autore porta avanti il suo percorso con grande coerenza, anche se non s'è mai capito perché la coerenza, specie nel campo delle idee, vada considerata un valore. Come se essere coerenti significasse già stare dalla parte giusta. Come tutti i critici della sua generazione, Fofi si muove dentro un format consolidato, tanto semplice quanto invidiabile: registi, nazioni, continenti. Con i capitoli che si intitolano I francesi; Gli inglesi; In Germania; In America Latina, Glauber Rocha; In Giappone, Nagisa Ōshima; Torniamo in Europa. Come tutti i critici della sua generazione, Fofi guarda al film come all'opera di un creatore assoluto. Il cinema è fatto di film e registi. Niente pubblico. Niente produttori, scrittori, montatori, direttori della fotografia, compositori, costumisti – di attori invece si è occupato in importanti libri dedicati a Marlon Brando, Totò, Alberto Sordi; ma appunto, attori che sconfinano in autori. Tutto ciò che non è “autoriale” svanisce nell'aria. Il cinema necessario è in lotta con il mercato, l'industria, i «comunicatori ossequienti al potere e alla comunicazione», i «maestri della finanza», insomma col «cinema controllato da feroci schiere di uffici studi» (non è chiaro cosa siano gli “uffici studi”, ma avranno a che fare col neoliberismo). Fofi scrive Autori maiuscolo, come un manifesto della Nouvelle Vague o un borderò della Siae. Gli Autori sfilano radunati attorno al motivo dello slancio anarchico, della critica antisistema, della pulsione libertaria. C'è il «calore umano» di Buñuel, la «cerebrale freddezza di Kubrick», l'«estetica della fame» di Rocha; ci sono gli autori rinviati a giudizio (su «Ken Loach e Neil Jordan ci siamo illusi», mentre Herzog «eccede un po' in vitalismo e ha un fondo un po' dannunziano»). Gli Autori hanno tutti una loro «poetica», affrontano sempre «i nodi di una storia politica» o quelli «irrisolti» del presente o propongono un «esame della realtà». I film americani da salvare, va da sé, sono quelli che hanno offerto una «dura critica della società americana», come fossero volantini distribuiti a una manifestazione contro la guerra a Washington. Non c'è spazio per cose inservibili. Non dico Dirty Dancing, ma neanche le inutili coreografie di Busby Berkeley, che non fermano le guerre o cambiano il mondo, ma possono farti stare bene lo stesso. Le pagine più ispirate del libro sono per Rainer Werner Fassbinder, «uno dei pochi nomi riconducibili all'idea di anarchia». Ma in Italia? Dov'è che ha preso forma una visione anarchica nel cinema italiano? Anarchici sono alcuni film di Rossellini e Monicelli. Mentre Bellocchio, Bertolucci e Ferreri «ci hanno illuso». Pasolini, nì. La strada maestra però è quella dell'anarchia di Ciprì e Maresco, con le loro «scelte austere, quasi monacali, d'arte e di vita, la religiosità senza riti, la disperazione teologica della morte di Dio». Lo sforzo complessivo del cinema del no è enorme. Fofi lo dice con chiarezza, «il cinema non è importante, quel che importa è la vita». Il compito è «dare senso alla cultura e all'arte e di liberare i nostri simili». La nostra è un'epoca cinica e assumersi il rischio di frasi del genere non è scontato. Fofi lo sa. Sa anche di essere uno dei pochi critici cinematografici cui è concessa una voce sulla Treccani, quindi può permetterselo. Però alla fine di questa lunga cavalcata del cinema anarchico un paio di cose non mi tornano. Anzitutto, l'idea come dice Fofi che «la vita, il presente, l'oppressione, la bellezza e la bruttezza del genere umano» si trovino solo dalle parti del film d'autore o dell'impegno e non anche dentro un blockbuster o una sceneggiatura di Nora Ephron. Poi non mi torna la ripugnanza per il presente. Capisco, per carità, quella contro il neoliberismo e la società che produce zombie eccetera. Ma tutti i film e gli autori citati da Fofi sono ancora il canone supremo e intoccabile di ogni Dams, cineforum, festival, rassegna, sindacato della critica e Cinema America occupato. Nonostante la rapidità dei tempi che viviamo, la liberazione dall'idea che i film debbano avere un messaggio utile a svegliare le coscienze intorpidite dalla televisione è ancora lontana. Possiamo stare tranquilli. ✌

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