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Racconti, racconti

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Racconti, racconti

È un mito: la città, le stanze e le finestre, le strade che sputano vapore; per ognuno, per tutti, un mito diverso, testa d'idolo dagli occhi di semaforo che ammiccano verde tenero, rosso cinico.

Questa isola che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di brillanti, chiamatela New York, chiamatela come vi pare; il nome non ha importanza poiché, venendo dalla più greve realtà dell'altrove, si è solo in cerca di un luogo dove nascondersi, dove fare un sogno in cui si abbia la prova che forse, dopo tutto, non si è un brutto anatroccolo, ma si è meravigliosi, degni di amore.

La prima volta che ci ho messo piede aveva tutta l'iridescenza degli inizi del mondo. Ero sbigottito, perduto tra il traffico della dogana e poi dei docks, dei taxi, dell'elevated, del subway, dei grattacieli. Come se New York fosse tutta lì, fauci aperte, immane leviatano, a triturare senza pietà chiunque non sapesse l'inglese.

New York era un'idea infinitamente romantica, il misterioso legame che teneva insieme tutto: amore, denaro e potere, il sogno stesso, luminoso e deperibile. Pensare di viverci equivaleva a ridurre il miracoloso al terreno: la gente non “vive” a Xanadu. Non volevo conoscere l'atroce consapevolezza che New York fosse una città e non un universo.

Man mano che la mia mente, senza volerlo, maturava, ho cominciato a vedere New York nel suo complesso e ho cercato di salvarne un pezzetto. Da quel momento ho capito che, per quante volte potessi andarmene, quella sarebbe stata sempre casa mia. Forse diventiamo newyorkesi il giorno in cui ci rendiamo conto che senza di noi New York continuerà a esistere. Per allontanare l'inevitabile cerchiamo di ricordarla com'era.

(E in questo ci aiutano antologie bellissime come questa. E grazie a Francis Scott Fitzgerald, Truman Capote, Joan Didion e agli altri, che hanno scritto il pezzo al posto mio).

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