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Combaciarsi a Natale

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Combaciarsi a Natale

Il mistero della Play 4

Nei giorni prima di Natale ho sentito schiere di genitori raccontare che si accingevano a regalare la Play 4 ai loro bambini, che non c’era niente da fare, perché a Babbo Natale avevano chiesto solo quel dono, e quindi pazienza se costava caro, ci si piegava.

Non so nulla della Play 4, ma avrei tre domande: perché i bambini chiedono tutti lo stesso regalo? Considerato che possiedono già la Play 3, cosa pensano che la Play 4 possa mai aggiungere di così strabiliante nella loro vita? E perché i genitori gliela comprano anche se non vorrebbero?

Bisognerebbe che ci prodigassimo ad esaudire i sogni, non le richieste commerciali. E bisognerebbe saper riconoscere, nel proprio figlio, il volto artefatto del mini-consumatore che è diventato, e ritrovare il volto del bambino che per fortuna è ancora, e che giocherebbe volentieri a palla, a birilli, ai cubi di legno, o anche a niente, se solo fosse libero di farlo, se non fosse ingozzato di pubblicità e intriso del nostro collettivo conformismo consumistico competitivo, per cui se tutti hanno l’iPhone compriamo tutti l’iPhone.

Se i nostri figli fossero liberi, già... Se noi fossimo liberi!

Dovremmo regalare solo libri ai ragazzi.

Non so quanti ne abbiano trovati sotto l’albero, spero almeno due o tre. Ma credo che dovremmo regalargliene di continuo, non solo a Natale o al compleanno: uno ogni tantom, a scadenza regolare, durante tutto l’anno e per tutta la vita.

I libri in realtà non dovrebbero nemmeno essere regali. Non si dovrebbe impacchettarli né coprirgli il prezzo: sono necessari come il cibo, quindi andrebbero solo semplicemente distribuiti.

Ci vorrebbe qualcuno che si occupasse, quasi per mestiere, di rifornire regolarmente di libri un ragazzo. Un genitore, uno zio, un amico, un maestro, un libraio. Qualcuno che, insomma, si prenda cura dell’anima che cresce, soprattutto durante l’infanzia e l’adolescenza, quando credo che l’anima cresca con una velocità diversa: cambiamo di continuo, quando siamo giovani, abbiamo pensieri e paure e sogni perennemente in evoluzione. Per questo ci vorrebbe un libro per ogni fase, e bisognerebbe non sbagliare libro. O meglio, non sbagliare il tempo.

Questo mi è sempre sembrato un punto fondamentale: non tutti i libri vanno bene in un certo momento della vita; possono anche essere grandi capolavori, ma se non ci parlano, non valgono per noi. Il libro è giusto, ma il momento no: magari ci parlerà più avanti, fra un anno, o fra dieci. O non ci parlerà mai, ma solo perché ci avrebbe parlato fra cinquant’anni quando non ci saremo più. Rischiamo di perdere l’incontro con certi libri per mancata sincronizzazione. Così è anche per le persone, se ci pensiamo bene. La persona è giusta, ma il momento è sbagliato e l’incontro non si fa. Ci si manca.

Per questo non è facile regalare un libro. E non si può fare come con gli altri regali, entrare nel negozio e prendere il primo che capita come fosse una saponetta, e neanche farsi semplicemente consigliare dal libraio o scegliere il libro più venduto del momento. Intanto bisogna conoscere bene il ragazzo a cui si vuol regalare il libro, e possibilmente sapere in che fase della vita si trova. E poi bisogna leggere qualche pagina, di un libro, vedere in che modo è scritto, non solo che storia racconta. Sono le parole che ci prendono, il loro modo di essere intessute insieme, il ritmo interiore che ci producono dentro. Infine l’impresa più difficile: capire se quel libro si adatta alla fase in cui è il ragazzo: se ci può essere incontro. Se libro e ragazzo combaciano.

Certo, possiamo sbagliare. Ma se facciamo giusto, non avremo regalato un libro, ma molto di più: avremo fatto in modo che una persona e una storia si trovino al momento giusto. Che cosa poi nasca da lì non ci è dato sapere. Noi siamo solo i donatori ignari, i procuratori inconsapevoli di scintille. Un po’ come faceva Eros con le sue frecce d’oro: ne lanciava una a un tale, e poi se ne tornava a far le cose sue, ignorando che cosa ne sarebbe stato di lui, con quale amore di colpo si sarebbe trovato a fare i conti nella vita.

Regalare un libro è diventare Eros.

Combaciare... È un verbo bellissimo, lo usiamo troppo poco. È legato a certe attività che implicano precisione: per esempio quando i due lati di un qualche oggetto devono combaciare perché funzioni. Lo usava molto mia madre, che faceva la sarta: quando tagliava un vestito, poi i vari pezzi dovevano combaciare perfettamente per poterli cucire insieme.

Vuol anche dire corrispondere, intonarsi. Una persona per esempio ci corrisponde quando sentiamo che c’è sintonia con lei. E un vestito s’intona alla serata. O un colore s’intona al nostro incarnato. Sono tutti verbi che segnalano un incontro riuscito: sono indicatori di armonia, di momenti privilegiati della vita in cui le cose vanno insieme, collaborano, non fanno attrito.

È bello che anche i libri combacino con quel che siamo, che ci corrispondano come un amico, che s’intonino a noi. Come un vestito.

Una volta regalato un libro a un ragazzo, però, bisognerebbe accompagnarlo, non lasciarlo solo davanti al suo libro. Perché può darsi che non lo apra nemmeno; oppure che cominci volonterosamente a leggerne qualche pagina ma poi si stufi subito, e dica che è noioso o che non ci capisce niente. Quando i ragazzi dicono così, non è mai così. Vuol solo dire che non hanno trovato la chiave per entrare nel libro, e quindi sono rimasti fuori, al freddo. È bruttissimo quando non abbiamo la chiave, o perché l’abbiamo dimenticata o perché non ce l’hanno mai data.

Se non ci danno la chiave, quella non sarà mai casa nostra, ci sentiremo sempre stranieri. I ragazzi si sentono stranieri davanti a un libro, oggi. Per questo bisognerebbe accompagnarli in casa, mostrargli ogni stanza, ogni finestra, ogni quadro e tappeto. Con calma, sedendoci ogni tanto davanti al caminetto, magari con un tè caldo e i pasticcini.

Lo so che una volta non c’era bisogno, noi leggevamo e basta, non era necessario che ci accompagnassero. Ma ora non può più essere così, perché siamo tutti occupati in altro, non c’è l’abitudine a leggere e quindi, quando non c’è l’abitudine, tocca ricominciare a imparare.

Accompagnare un ragazzo dentro un libro vuol dire leggergli qualche pagina ad alta voce. E fermarsi sulle parole. Ancor meglio, direi “fermare” le parole: non lasciarle scivolar via, accompagnare con calma anche loro. Fare pause, metterci tempo. Indugiare sulle parole e frasi che ci colpiscono e non lasciarle andare, e fare in modo che colpiscano anche colui che ci ascolta. Abbiamo solo la voce per far questo, l’intonazione, lo sguardo. Ci dobbiamo mettere intenzione, quando leggiamo, in modo che quel che vogliamo passare passi. È come costruire un ponte: se non lo costruiamo, le parole come fanno a passare? Si fermano bloccate sulla strada interrotta, non arriveranno mai. Leggere ad alta voce è costruire i ponti.

Insomma, quando regaliamo un libro a un ragazzino dovremmo anche prevedere di regalargli un po’ del nostro tempo, sederci vicino a lui e leggergliene qualche pezzo. Poi chiudere, salutare e, a quel punto, fidarsi ciecamente del libro. Se le avremo accompagnate per un breve tratto, le parole poi scorreranno da sole. Lente, profonde. Come un fiume. E quel ragazzo, di sicuro se lo porteranno via.

Vorrei che potessimo continuare a cantare quel che ci piace, negli anni a venire: i Beatles, Umberto Tozzi o i canti di Natale. Vorrei che ci fosse data questa libertà. Ma penso che innanzi tutto siamo noi a dovercela prendere.

Per riuscirci, dovremmo soprattutto credere molto in quel che cantiamo. Soffermarci, anche qui, sulle parole e riflettere molto sul senso, chiederci se davvero ci appartiene, se fa parte della nostra storia, della nostra civiltà. Chiederci anche se ci teniamo ancora, se ci crediamo, o se quelle parole hanno smesso di parlarci. Non cantare e basta, così, per un’inerzia culturale.

Poi, se capiremo che quelle parole sono ancora nostre (siano i canti del Natale o le canzoni di Battisti), allora dovrebbe anche venirci la voglia di difendere la libertà di cantarle, quelle parole per noi così importanti.

Lo dico in altro modo: se siamo così pronti a dismettere i nostri canti per una fraintesa idea di accoglienza, forse può voler dire che non ci crediamo più così tanto, che li cantiamo solo per effetto decorativo.

Mi piacerebbe anche, allo stresso modo, che non “depurassimo” i nostri capolavori di quei passi o di quelle immagini che di colpo, adesso, temiamo possano offendere o urtare chi appartiene a un’altra civiltà. Si tratta delle grandi opere dell’arte e della letteratura che hanno fatto la nostra tradizione, e che per secoli ci sono piaciute tanto; mi piacerebbe che non ci facessimo karakiri, cioè questa sorta di autocensura preventiva per cui togliamo via le pagine dove un personaggio mangia del maiale o le inquadrature di chi fuma una sigaretta. Intanto sono solo personaggi, è finzione artistica! E poi la grande arte non offende mai. E soprattutto ha una sua sostanza atemporale, che va lasciata intatta. Nessuna nuova idea o tendenza modaiola ha il diritto di fare un tale scempio dei capolavori del passato (che sono un patrimonio dell’umanità), tanto meno le idee conformiste dei novelli benpensanti, paladini del politicamente corretto imperante. Sono idee per forza di cose anguste, limitate. La libertà è molto più vasta.

Siamo esseri liberi, vorrei che accettassimo questa nostra condizione fortunata fino in fondo; lo so che è un peso notevole, come diceva Eric Fromm nel suo Fuga dalla libertà: ma è un peso che sarebbe bello portare con serenità, e anche con un po’ d’orgoglio.

Questo il mio augurio per l’Anno Nuovo.

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