Cultura

Guizzanti pesci rossi

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Guizzanti pesci rossi

  • –Alfonso Berardinelli

Pesci rossi di Emilio Cecchi, una raccolta di elzeviri, o prose d’arte, o saggi stravaganti, comparsa nel 1920, è il più deciso punto di svolta nella carriera di questo critico-scrittore e uno dei momenti più felici nella prosa italiana del Novecento. Il segnale che dà è che il primo ventennio del secolo, il ventennio delle innovazioni e delle avanguardie, è finito, ha realizzato quello che poteva e ha esaurito le sue migliori energie. Il Futurismo (malato di estetismo gestuale) e una rivista come «La Voce» (impegnata in tutte le direzioni culturali) avevano minato e fatto esplodere la tradizione ottocentesca, ereditando, soppesando, spremendo e mettendo fuori gioco D’Annunzio e Pascoli, Croce e Gentile. Dopo la fine della Grande guerra, la generazione degli anni ottanta dell’Ottocento aveva preso ormai piena consapevolezza di sé, dei propri compiti e limiti: con Cecchi, soprattutto con lui, cercò di far fruttare al massimo i limiti, cominciando a diffidare di ogni giovanile avventura, magari conservandone a distanza una certa musicale inquietudine. L’inquietudine del giovane Cecchi, cultore di Kipling e dei romantici inglesi, diventa con l’inizio degli anni venti magnetismo del remoto e dell’esotico, della stravaganza, del vagabondaggio fantasioso e della micrologia calligrafica.

In Pesci rossi la prosa di Cecchi è al suo massimo di freschezza e di intensità. In quanto primo e compiuto esperimento di prosa d’arte, stabilisce un modello insieme perfetto e suggestivo. Ognuna delle sue pagine realizza e promette, dilata il dettaglio portandolo per successive deduzioni figurative e immaginifiche verso incontrollabili dismisure sempre, però, tenute sotto controllo da una maestria artigianale che divenne da allora in poi memorabile. Italo Calvino evocò una volta questa memorabilità di Pesci rossi. Lui prosatore non meno perfetto e suggestivo, avventuroso e controllato, confessò di conoscere a memoria la prima mezza pagina del libro, quella dedicata appunto ai famosi pesci: «I pesci rossi nella palla di vetro nuotavano con uno slancio, un gusto di inflessioni del loro corpo sodo, una varietà d’accostamenti a pinne tese, come se venissero liberi per un grande spazio. Erano prigionieri. Ma s’erano portati dietro in prigione l’infinito. Il più straordinario però era questo: soltanto visti di profilo eran pesci veri e propri. A parte la gradevole pazzia del loro colore, visti di profilo erano assolutamente pesci soliti, di forma familiare, come i pesci del miracolo dei sette pani, o come quelli che ognuno la domenica può tirar su da un argine con l’amo o con la rete.

Quando davano un colpo di coda, un guizzo e si mettevano di fronte, la cosa cambiava. La loro faccia dalla grande bocca arcuata diventava sotto la fronte montuosa una maschera rossa di malinconia impersonale e disumana. Posata ai lati sulle branchie, come su un motivo di decorazione, pareva resa anche più astratta dalla fissità dei grandi occhi neri cerchiati d’oro».

Movimento e precisione. Familiarità e sorpresa. Senso del limite reale e dell’infinito possibile. Il “colpo di coda” e il “ guizzo” accomunano l’oggetto della descrizione e lo stile della descrizione. Dall’opposizione tra faccia e profilo Cecchi passa poi a un’opposizione enormemente maggiore, quella fra Occidente noto e misterioso Oriente. Siamo ancora sulle orme di Kipling, tra Europa e Asia. Due pagine dopo, ecco l’affondo: «dove un europeo mette il sublime, un orientale mette il mostruoso». Descrittivo e fisico come un critico d’arte, Cecchi non cessa di inseguire le idee. Gianfranco Contini ha osservato che nella sua «insaziabile curiosità intellettuale», Cecchi è introspettivo anche quando la sua materia è «esterna e oggettiva».

Si capisce bene che Calvino, intellettualistico e concreto come era, non poteva che amare questa prosa e specchiarsi nella sua magia artigianale. Senza Pesci rossi, le calviniane Città invisibili non sarebbero forse state scritte. Con l’aggiunta di uno scetticismo molto toscano e di una praticità empirica inglese a lungo coltivata, Cecchi si mostra parente a volte prossimo e a volte remoto di prosatori concisi e insieme mistici, fra limite e illimitato, come Benjamin e Borges. Meno speculativo del primo e meno narrativo del secondo, Cecchi con Pesci rossi sfida e schiva filosofie e filosofemi di Croce e di Gentile, mettendo in scena un tipo di prosa che verrà ritenuta responsabile di aver svalutato sia la passione per le idee politiche (da Prezzolini a Gramsci a Gobetti) che la passione per i personaggi di romanzo. Dagli anni venti in poi Cecchi troverà accettabile il romanzo solo se capace di superare l’esame della bella pagina liricheggiante. È precisamente con Cecchi teorico di questa prosa antinarrativa che Giacomo Debenedetti continuerà a polemizzare fino agli anni sessanta scrivendo le sue lezioni sul Romanzo del Novecento. Anche Calvino, del resto, scegliendo precocemente il racconto, la fiaba e l’allegoria, passando dai racconti di Hemingway a quelli di Borges, facendo a pezzi il romanzo in Se una notte d’inverno, mostrerà di preferire quel genere di leggerezza o rarefazione che impediva al romanzo di esistere. Eppure, anche senza volerlo o saperlo, cercando l’intensità di certe rivelazioni momentanee, di quelle improvvise illuminazioni epifaniche su cui Proust e Joyce seppero costruire la loro epica dell’esistenza, Cecchi era moderno come Debenedetti. Non meno moderno, anche se con molta prudenza in più e in direzione opposta. Questo ci fa capire Emanuele Trevi nel suo ottimo saggio introduttivo alla ristampa Elliot di Pesci rossi. Per i più consapevoli scrittori di oggi il Novecento non ha smesso di mandare messaggi.

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Emilio Cecchi, Pesci rossi , Elliot Edizioni, Roma, pagg.124, € 12,50.