Cultura

Da Adele agli Eagles of Death Metal. Il 2015 della musica in dieci album

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Adele e gli altri. Il 2015 della musica in dieci album

Quando un anno finisce, trionfano le classifiche del meglio che ci lasciamo alle spalle, un «gioco» che a volte può riuscire utile, in molti casi diverte ma finisce inevitabilmente per dividere. Di seguito proponiamo una rassegna degli album che, a nostro giudizio, hanno segnato questo 2015. Non una classifica dei migliori, né una graduatoria di quelli che hanno venduto di più, ma una lista delle opere che abbiamo fatto fatica a togliere dall'impianto stereo. Perché ci sembravano cogliere lo spirito del tempo, perché ci chiedevano più di un ascolto per essere comprese in profondità o molto più semplicemente perché ci piacevano parecchio.

Adele, «25»
Che vi piaccia o meno, da lei non si può prescindere. Le sue doti canore sono indiscutibili, il songwriting magari non sarà così originale per chi è abituato a frequentare territori neo-soul, la confezione è fin troppo raffinata. Ma una ragazza di 25 anni prodotta da una indie label – la XL Recordings – che al terzo album, nel bel mezzo della crisi discografica globale, si conferma il fenomeno commerciale del decennio dicendo no allo streaming e al tempo stesso tenendo alta la barra della qualità media dell'opera merita tanto di cappello. Magari non ne potete più del tormentone «Hello», ma credeteci: ce ne fossero di fenomeni commerciali così.

Coldplay, «A Head Full of Dreams»
«Ghost Stories» era un album in scale di grigio. Controverso, intimista, sofisticato. «A Head Full of Dreams», uscito a fine 2015, tira invece fuori il meglio di quanto Chris Martin e soci sono capaci: l'esplosione del colore. Quella loro è musica mainstream, inutile chiedere spregiudicate acrobazie sperimentali. Fanno pop, ma hanno un'anima e – lasciatecelo dire – coi tempi che corrono non è poco. Geniale il concept del singolo apripista «Adventure of a lifetime».

Tame Impala, «Currents»
Se detestate il pop e adorate la figura del musicista/alchimista sempre proteso nello sforzo della creazione sperimentale, il vostro uomo è Kevin Parker, la vostra band è quella dei Tame Impala e il vostro disco è «Currents». Il terzo album in studio di questo gruppo australiano a geometrie variabili è un'efficace dimostrazione di dove il rock possa ancora spingersi. Alla faccia dei tanti che lo dichiarano morto. Un disco ipnotico come «Let it Happen», ossessivo e malizioso come «The less i know the better», sottilmente malinconico come «'Cause I'm a Man».

Florence + The Machine, «How Big, How Blue, How Beautiful»
Il 2015 ha salutato anche il terzo album di Florence Welch e soci, quello della conferma. Una bandierina piantata nela terra di nessuno che sta tra rock, pop, blues, soul e musica colta che è l'indie secondo The Machine. Un'opera struggente, come l'incedere di «What kind of man», a tratti epica come la linea melodica di «Ship to wreck».

Blur, «The Magic Whip»
E qui dobbiamo essere un po' di parte. Probabilmente «The Magic Whip» non è un capolavoro (ok, senza probabilmente), ma noi negli anni Novanta c'eravamo, abbiamo respirato l'aria del Brit-Pop e compreso a fondo il senso della renaissance musicale che, in piena epoca Blair, Damon Albarn e i suoi sodali misero in atto oltremanica. Un disco di inediti dei Blur dopo 12 anni di silenzio non è roba da lasciarsi passare sotto il naso come niente fosse. Tanto più che «Lonsome Street» ci restituisce la loro fischiettabilità dei tempi d'oro.

Eagles of Death Metal, «Zipper Down»
Ci sono dischi che vanno ben oltre il loro contenuto. Vogliamo essere sinceri: per quanto apprezziamo l'irresistibile ribalderia che Jesse Hughes e Josse Homme hanno messo dentro il progetto EODM, prima dei terribili fatti del Bataclan non avremmo mai messo «Zipper Down» in un articolo del genere. Sulle prime lo avevamo liquidato un po' frettolosamente come l'ennesima prova della loro strafottenza rock and roll, poi l'Isis ha sparato e abbiamo capito che di quella strafottenza rock and roll la società occidentale ha un bisogno enorme. E allora vai con il riff affilato di «Complexity».

Bob Dylan, «Shadows in the Night»
Anno imprevedibile, questo 2015, sul versante musicale. Chi lo avrebbe detto, per esempio, che Sua Bobbità arrivasse un giorno a pubblicare un disco di standard del Great American Songbook? Eppure è uscito «Shadows in The Night», roba da crooner, reinterpretata con inimmaginabile sensibilità country folk. Carmelo Bene diceva che il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Bob Dylan – aggiungiamo noi – fa quello che gli passa per la testa. Che ci piaccia o meno.

Francesco De Gregori, «De Gregori canta Bob Dylan. Amore e Furto»
Lasciate perdere tutta la pappetta mainstream che abbiamo visto scorrere in classifica. Dal nostro personalissimo punto di vista, il miglior disco italiano del 2015 è l'album in cui De Gregori paga il suo debito con Dylan. Un'operazione onesta fino all'autoironia (l'«amore» del Principe per Zimmy si traduce nel «furto» della sua arte, spiega De Gregori rubando ancora una volta un titolo di Dylan), filologica come la cover di «A Sweetheart like you», spregiudicata come la nuova versione di «Desolation Row», incisiva come le liriche di «Gotta Serve Somebody». Per molti De Gregori è un padre ingombrante per la musica leggera italiana. Lasciate perdere: ne avessimo di gente come lui.

Fresu, Bernstein, Rojas, Petrella, «Brass Bang!»
Disco jazz che ci ha più a lungo tenuto compagnia in quest'anno che volge al termine è «Brass Bang!», progetto a tutto fiati (due trombe più o meno effettate, trombone e tuba) zappiano nello spirito che Paolo Fresu ha condiviso sull'asse Italia-Usa con Steven Bernstein, Marcus Rojas e Gianluca Petrella. Ci sono dentro standard di Duke Ellington come «Black and Tan Fantasy» e «Rockin' in Rhythm», «La Réjoussonance» di Handel, il Rinascimento di Pierluigi da Palestrina con «Surgentem cum victoria», cover del songbook classic rock come «As tears go by» dei Rolling Stones e «Manic Depression» di Jimi Hendrix ma anche l'adorabile spacconaggine del Frank Buscaglione di «Guarda che luna». Per quanto ci riguarda, chi osa vince sempre.

Frany B & The Cryptic Monkeys, «Against»
Ci piace l'idea di chiudere questa rassegna offrendo un riconoscimento a un'opera indie italiana. Siccome siamo del parere che la musica indie ha senso fino a che spiazza, il riconoscimento va ad «Against», opera seconda del producer napoletano Franky B che stavolta applica all'ambito dell'elettronica il concetto di band: i Cryptic Monkeys sono Peppe Cozzolino (synth & programming), Paolo Forlini (drums) e Giovanni Roma (dubs & echoes). Abbondano le collaborazioni (da Sha One a Marcello Coleman) ma a stupire è soprattutto il respiro internazionale del progetto e la sua forza espressiva. Un sound che è un pugno nello stomaco agli irriducibili del già sentito indie.

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