Cultura

L’obbligo di fare, la forza della verità

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L'Editoriale|L’editoriale del direttore

L’obbligo di fare, la forza della verità

C’è una sola cosa di cui tutti parlano e che va levata dal tavolo delle chiacchiere prima che le chiacchiere, che non sono fatti, diventino verità percepita e si trasformino in un reale aumento del costo del credito o, cosa ancora più preoccupante, in una reale diminuzione della sua disponibilità: due fenomeni rovinosi allo stato ingiustificati, di evidente impatto recessivo, che la gracile ripresa italiana non si può consentire. Bisogna togliere dal tavolo le chiacchiere che accreditano un problema sistemico bancario, occorre evitare che l’irresponsabilità diffusa con la quale si trasforma un problema che riguarda l’1% dei clienti di quattro banche locali che detengono complessivamente l’1% del totale dei depositi e comunque tutte e quattro rimesse in moto con soldi privati specificamente dello stesso sistema creditizio italiano, diventi l’occasione quotidiana per lanciare ogni genere di allarme su ogni tipo di investimento finanziario. Si finisca con il costruire pietra dopo pietra, tra manone finanziarie interessate, manine superficiali e prese di posizione politiche emotivo-mediatiche, quasi sempre immotivate e non meditate, un muro di paure e di dubbi ingiustificati capace di abbattere il “cemento armato” di un patrimonio che non ha pari al mondo, il risparmio degli italiani, e che ha nel credito e nella fiducia i suoi capisaldi.

C’è stata una sottovalutazione politica del problema, interna e europea, senza dubbio alcuno, che parte da lontano, almeno dal 2013. La politica tutta, proprio tutta, che non ha fiatato in sede europea, non ha voluto aiuti quando poteva chiederli, ha avuto almeno due anni pieni per dimostrare la propria esistenza in vita, non lo ha fatto, oggi abbia la decenza di risparmiarci risvegli improvvisi a tempo scaduto, e di aggiungere confusione e polveroni su una materia così delicata. Si poteva, e doveva, fare qualcosa di più oggi con il Fondo interbancario di tutela dei depositi? Probabilmente, sì. Non è facile, certo, chiedere la flessibilità che si merita sulla legge di stabilità, per ragioni importanti come la stabilizzazione dell’art bonus per gli investimenti in cultura e lo sconto fiscale sui maxi-ammortamenti, ma anche per interventi francamente elettorali come il bonus da 500 euro per i diciottenni, e ottenere allo stesso tempo altrettanta flessibilità sull’applicazione per legge della direttiva (Brrd) che riguarda la risoluzione delle crisi bancarie e il connesso bail-in che fissa il principio che i creditori devono concorrere in caso di fallimento delle banche, con una scala di priorità che parte dagli azionisti e arriva fino ai correntisti sopra i 100mila euro di depositi, e sulla quale peraltro non si sono mai fatte obiezioni vere.

Una volta scelta la strada, di comune accordo con la Banca d’Italia e i principali banchieri del Paese, di agire con capitali privati, limitando l’intervento pubblico a una generica clausola di garanzia della Cassa depositi e prestiti, si è chiesto a tutte le banche, non solo le più grandi, di fare la loro parte e mettere in sicurezza anche i prestiti subordinati. Non è stato possibile, è arrivato un no, non si capisce bene se per ragioni di merito o temporali, resta il fatto che ci si domanda oggi quanto di miope, se non di peggio, ci sia stato nell’atteggiamento di questi istituti medio-piccoli e di chi ha la responsabilità dell’associazione dei banchieri (Abi).

Potremmo continuare, ma non servirebbe a molto, e si finirebbe con l’alimentare quel gioco demagogico che ha il solo obiettivo di oscurare un intervento che ha comunque consentito di tutelare gli impieghi in essere in aree strategiche del Paese: si ha idea di che cosa avrebbe significato congelare i conti/correnti e rinviare il rimborso dei bonifici o, ancora di più, imporre alle imprese affidate di rientrare immediatamente? Si ha idea di quale sarebbe stato il prezzo che avrebbero pagato l’economia reale e il mondo del lavoro in aree acciaccate ma ancora vitali?

Ci si occupi piuttosto, con serietà, del problema principale di questi giorni, il dovere assoluto di garantire il massimo della trasparenza allo sportello e nei comportamenti dei consulenti finanziari, e lo si faccia con la serietà e la tempestività, queste sì necessarie, per evitare che il circuito perverso delle chiacchiere continui a tirare su, mattone dopo mattone, il muro delle paure ingiustificate, facendo confusione tra prestiti subordinati e normali obbligazioni bancarie, tra retail e istituzionali, tra prodotti propri e altrui, tra banca e banca. Si dia attuazione immediata almeno al punto 1 del manifesto del Sole 24 Ore per la tutela del risparmio, si smetta di girarsi dall’altra parte e di fare finta di niente, si può essere miopi una volta ma ripetersi no, sarebbe imperdonabile. Per facilitare il lavoro di tutti, pubblichiamo in prima pagina “la posologia”e gli “effetti collaterali” del nostro “bugiardino” a difesa del risparmiatore che non è nient’altro che una delle esecuzioni pratiche possibili di quella richiesta segnalata al punto 1 del nostro manifesto e, cioè, di assicurare con urgenza «prospetti semplificati che devono esprimere un grado di rischiosità in sintesi da illustrare al risparmiatore». Abbiamo accolto con soddisfazione la dichiarazione del premier, Matteo Renzi, perfettamente in linea con le nostre richieste, alla conferenza di fine anno di martedì scorso: «Serve un foglio con tre cose scritte chiare, allora uno capisce che si sta facendo un investimento a rischio, se ti fanno firmare 47 documenti non lo capisci». Bene, parole sacrosante, si faccia allora in modo di passare all’azione, e non si lasci cadere nel vuoto anche queste parole, i meriti del sistema creditizio italiano in termini di solidità complessiva negli anni della guerra persa non sono in discussione, convivono con ruberie, crediti agli amici degli amici e qualche pasticcio di troppo soprattutto a livello locale, ma l’esigenza di essere più trasparenti li investe direttamente, esprime un sentimento diffuso, e, ora più che mai, urge un segnale chiaro e forte, a prova di “bugiardino”.

Lasciamo lavorare con serietà la magistratura e si perseguano i responsabili di truffe e raggiri, senza sconti e riguardi per nessuno a tutti i livelli, si abbia cura di vigilare sui dettagli normativi e di dare piena soddisfazione alle vittime reali di questi raggiri, ma si abbia l’orgoglio e la lungimiranza politica di capire che la posta in gioco sono la crisi di fiducia e la eventuale fuga di depositi da questa determinata e, di fronte a una prospettiva simile, si deve avere il coraggio di agire con forza sul fronte della trasparenza e di dire sempre la verità anche se impopolare. Bisogna avere, ad esempio, il coraggio di dire che la Banca d’Italia e la sua vigilanza possono avere commesso degli errori ma sono la scuola di uomini che hanno dato e continuano a dare di più a questo Paese e che meglio lo rappresentano, per apprezzamento e rispetto conquistati sul campo, a livello europeo e globale. Non bisogna dimenticarsi che “l’arbitro” che ha restituito ai risparmiatori ciò che era giusto restituire in questi anni lo ha voluto e finanziato la Banca d’Italia e funziona grazie a 200 uomini suoi, che sono più di 100 le banche messe in amministrazione controllata o ritornate in bonis o senza perdite per i loro clienti negli ultimi 15 anni proprio sotto la spinta determinante di via Nazionale, che sono le sue indagini ad aver consegnato alle patrie galere i ladri che rubavano a Genova e a Milano alla guida di Carige e della BPM, a costringere alle dimissioni i vecchi vertici del Monte dei Paschi e a scoperchiare, con le proprie ispezioni, la pentola dei derivati di una banca, unico caso al mondo di azienda di credito in difficoltà salvata con un aiuto dello Stato che ha consentito allo stesso Stato di fare i soldi proprio su quell’aiuto. Quando in assoluta solitudine e in tempi non sospetti questo giornale segnalava comportamenti poco commendevoli nelle Popolari venete erano gli uomini di via Nazionale a trasferire alla magistratura le stesse pratiche sospette (scambiare erogazione di crediti e mutui con l’acquisto di azioni della banca finanziati dalla banca stessa, divieto assoluto, punto 2 del nostro manifesto), ed è anche su questa base che si sono mosse la Bce e le Procure. Sempre la Banca d’Italia ha prima chiesto ai vertici delle quattro banche locali (Marche, Ferrara, Etruria, Chieti) di soddisfare i requisiti patrimoniali e li ha messi così senza successo di fronte alle loro responsabilità, poi le ha commissariate e ha svolto la sua tradizionale funzione di broker quando si è trattato di reperire sul mercato i capitali privati indispensabili per mettere in piedi le banche-ponte, porre le condizioni perché possano essere ricollocate sul mercato a un prezzo ragionevole e garantire alla bad bank la valorizzazione di sofferenze e cespiti patrimoniali al meglio, in tempi ragionevoli.

Vuol dire o no qualcosa che sono stati gli uomini di questa istituzione, grazie all’autorevolezza e al prestigio loro riconosciuti, a costruire lo scudo europeo che ha tenuto in piedi il Paese quando i soldi uscivano con la velocità della luce e nessuno voleva più comprare i titoli di Stato italiani? Sono Francoforte e Basilea le sedi dove questi stessi uomini, fuori dall’Italia, esercitano le proprie funzioni, sono loro ad avere il rispetto anche dei rappresentanti più prevenuti dell’area nordica: si vuole rinunciare anche a questo e, cioè, alla possibilità di far valere non ragioni di bottega ma principi giusti e solidali come quelli che impongono che sia europea la garanzia sui depositi dei cittadini? A Bruxelles non ci vanno i banchieri centrali ma gli uomini di governo e, a Strasburgo, dove si approvano le direttive europee come quelle della Brrd sulla risoluzione delle crisi bancarie e le procedure conseguenti dei bail-in, compresa la dubbia retroattività, sono i politici di tutti gli schieramenti che devono votare e fare sentire il loro peso, ma valgono quanto il due di picche, quattro presidenti del consiglio e cinque ministri del Tesoro in meno di cinque anni mentre a rappresentare la Germania sono da sempre la cancelliera Merkel e un ministro del Tesoro del calibro di Schäuble, e hanno anche per soprammercato il vizio di stare zitti prima e di accusare dopo chi non c’entra niente. Eppure, dal 2013 e, cioè, da quando è iniziata la storia europea del bail-in, la fama dei duri a Bruxelles se la sono fatta chissà perché proprio gli uomini della Banca d’Italia che hanno posto anche qui senza successo la questione della retroattività.

Quando nel ’96 Ciampi, ministro del Tesoro, istituì la commissione dalla quale nacque la legge Draghi sulla trasparenza, il testo unico della finanza, tenne fuori per scelta Mediobanca, la Fiat e i loro consulenti più à la page, si disse che aveva voluto escludere i cosiddetti poteri forti e questo l’anno successivo costò al direttore generale del Tesoro dell’epoca, oggi presidente della Banca centrale europea, attacchi durissimi anche di tipo personale che, a un certo punto, avrebbero potuto costringere Draghi alle dimissioni, ma la reazione di Ciampi fu allora ferma e rivelò la cifra politica dell’uomo che verrà poi chiamato alla presidenza della Repubblica. Questa presa di posizione vigorosa e meditata, mai emotiva, che trovò consensi trasversali anche nell’opposizione a partire da Forza Italia, costrinse gli avversari ad abbozzare e fece fare un passo avanti al Paese sulla trasparenza nei mercati e in termini di democrazia economica. Nessuna delle ruberie perpetrate nelle quattro banche locali sia condonata, la magistratura faccia il suo lavoro fino in fondo, non si dimentichi che si è operato in un Paese che ha perso un quarto della produzione industriale e si dovrà fare presto una vera bad bank che ne tenga conto senza regali, proprio per consentire alle banche di finanziare correttamente l’economia sana, e si dovrà farlo giocoforza senza chiedere permessi europei preventivi. La voce della politica si levi con la stessa forza di quella di Ciampi di venti anni fa, sono in gioco la stabilità finanziaria e istituzionale, uscire dal solco lucidamente tracciato da Mattarella per avventurarsi sul terreno delle soluzioni mediatiche può essere fatale alla politica e alla giustizia e, cosa vitale, all’economia di un Paese che prova a uscire da una crisi infinita che ha prodotto danni come quelli di una guerra persa. Non possiamo permettercelo. Servono fatti alla voce trasparenza e alla voce educazione finanziaria e, soprattutto, occorre che arrivino presto e siano espressione di un fare comune consapevole.

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