Il novantenne Anthony de Jasay è il più sconosciuto dei grandi pensatori del nostro tempo. Bene ha fatto allora la European Center of Austrian Economics Foundation presieduta dal Principe Michael di Liechtenstein a conferirgli il primo “Ecaef Prize for Thinkers for the 3rd Millennium”.
Il suo lavoro più noto resta un libro del 1985, The State. L’incipit è fulminante: «Cosa fareste se foste voi, lo Stato?» Per de Jasay, da troppo tempo la teoria politica aveva smesso d’interrogarsi sullo Stato. Esso è considerato come una semplice superfetazione dei rapporti di forza in una certa società, oppure un dispositivo che può essere calibrato per realizzare un certo fine o perseguire determinati obiettivi. Al contrario, per de Jasay vale la pena provare a pensare allo Stato come se avesse fini e volontà proprie: qualcosa che evitiamo spesso di fare, forse perché «il contenuto prescrittivo di ogni ideologia dominante coincide con gli interessi dello Stato, anziché – come vorrebbe la teoria marxista – con quelli della classe dominante». L’esito è scioccante. Anziché vedere nello Stato uno strumento neutro, utilizzabile in un modo o in un altro a seconda dalla maggioranza che esce vincente dalle elezioni, è la società che diventa materia plasmabile dalla politica.
Lo Stato è un’istituzione particolare, che vive e prospera «per massimizzare il proprio potere discrezionale». È il potere discrezionale che «consente allo Stato di far sì che i suoi sudditi facciano quel che esso vuole, anziché quello che essi desiderano. Viene esercitato appropriandosi dei loro beni e della loro libertà».
De Jasay non nega certo che il monopolista della forza limiti il ricorso alla violenza all’interno dei suoi confini, o che fornisca specifici beni e servizi. Ma «una buona teoria dello Stato non dovrebbe basarsi sull’assunto, del tutto gratuito, che lo Stato serva altri interessi che non i propri. Dovrebbe prestarsi a spiegare il ruolo dello Stato nella storia politica sulla base dell’interazione, della concorrenza e del conflitto dei suoi interessi con quelli di altri attori».
Persino i più ardenti sostenitori della socialdemocrazia ammettono che l’organizzazione burocratica della beneficenza facilita lo scambio politico, il baratto fra sostegno elettorale e politiche che beneficiano gruppi particolari. Persino i più convinti fra i conservatori ammettono che iniziative volte a garantire la sicurezza nazionale, a combattere il terrorismo o a fermare la diffusione delle sostanze stupefacenti possono avere conseguenze indesiderate: la compressione della privacy, per esempio. Di destra o di sinistra che siano, analisti e politici proporranno soluzioni per limitare questi effetti collaterali. Perlopiù con scarso successo.
Il punto è: quali sono, realmente, gli effetti collaterali? Quale davvero è il mezzo, e quale il fine, dell’azione dello Stato?
Se, con de Jasay, pensiamo lo Stato come un “massimizzatore” del suo potere discrezionale, le parole altisonanti della politica perdono sostanza. I “beni pubblici” appaiono non come un costrutto teorico, ma come una recita. Quale che sia la musica che suona, i topini che seguono il pifferaio di Hamelin finiranno nel fiume Weser.
Uno dei primi ad accorgersi di The State fu James Buchanan, Premio Nobel per l’Economia 1986 e capostipite della teoria delle scelte pubbliche. Per dire dell’impressione che gli fece il libro, basta citare la sua recensione, apparsa su «Public Choice»: «Prendiamo in considerazione una scelta di nomi più o meno noti agli economisti della scuola di “public choice”: Machiavelli, Hobbes, Tocqueville, Marx, Pareto, Puviani, Schumpeter, Downs, Tullock, Riker, Nozick, Niskanen, Stigler, Auster e Silver, Brennan, Becker, Bartlett, Tollison. Scartiamo ogni punto debole nell’analisi/discussione, conservando soltanto gli elementi predittivi più solidi. Così facendo, potremo farci un’idea di The State». Insomma: un pensatore originale ne aveva riconosciuto un altro.
Dopo The State, de Jasay si è occupato di teoria dei giochi, di giustizia sociale e di quelle che considera essere le aporie del liberalismo contemporaneo. Ha pubblicato Social Contract, Free Ride (1989), una critica delle teorie dei beni pubblici; Scelta, contratto, consenso. Una nuova esposizione del liberalismo (1991, è l’unico suo libro tradotto in italiano, Facco-Rubbettino 2008); e le raccolte di saggi Against Politics (1996) e Justice and Its Surroundings (2002). La sua opera omnia, che comprende anche scritti brevi poi riuniti in volume, è in corso di pubblicazione per il LibertyFund di Indianapolis, che lo ospita anche sul portale Econlib.org.
Il fatto che sia un autore meno discusso di quanto, secondo i suoi ammiratori, meriterebbe, si spiega in parte in ragione della sua biografia. Jászay Antall venne al mondo in una famiglia dell’aristocrazia terriera ungherese. Dopo la prima guerra mondiale, i cechi avevano confiscato i terreni di sua madre in Slovacchia (che fino ad allora era Ungheria). Dopo la seconda, i comunisti fecero lo stesso con le proprietà del padre in Ungheria e Rutenia. Lui fuggì in Austria, per poi approdare in Inghilterra, cambiando nome in Anthony de Jasay. Studiò a Oxford ma, dopo un primo approccio all’accademia, all’epoca pressoché monoliticamente keynesiana, scelse di riparare in Francia. Fece l’investment banker, non il professore, dedicandosi alla filosofia politica solo una volta ritiratosi dagli affari. Da allora, ha perso progressivamente la vista e legge e scrive solo grazie all’aiuto della moglie.
È normale che de Jasay non sia sintonizzato con le convenzioni e le prassi del mondo degli studi. Ma, forse anche per questo, la sua è una prospettiva eccentrica e preziosa. Buchanan paragonò The State a Capitalismo, socialismo e democrazia di Schumpeter. Due pietre miliari del pessimismo della ragione.
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