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Starman senza polvere

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Starman senza polvere

Ashes to ashes, dust to stardust. Una densa e fragile stella nera ha cominciato a pulsare, da lunedì scorso, nell’affollato e instabile firmamento delle icone a noi contemporanee, ridisegnandone, ancora una volta, i confini. Starman in Stardust, si dirà. Ma David Bowie, Stardust cowboy della frontiera contemporanea, ossessionato dalle stelle e dall’abisso che le circonda, è stato qualcosa di più. Uno straordinario performer cross-disciplinare, per prima cosa. Pittore, drammaturgo, mimo e compositore. Ha ispirato stilisti come Alexander McQueen, Jean-Paul Gaultier, Kansai Yamamoto, arrivando a fare da testimonial per Tommy Hilfiger e Louis Vuitton.

Naturalmente, è stato un autore, un cantante e un musicista (ha messo nel tempo le mani su pianoforti, stylofoni, chitarre, sassofoni, batterie, sintetizzatori) da oltre 95 milioni di album venduti nel mondo, in osmosi con le innovazioni formali e poetiche del secolo, dal glam-glitter, al rock (alternativo, elettronico, sperimentale, sinfonico), al pop, al folk, alla disco, al rhythm’n’blues, al funk. Offrendo generosi passaggi a giovani promesse (Mick Ronson, approdato poi alla Rolling Thunder Revue di Dylan), icone all’epoca bollite (Lou Reed nel ’72) e brani eterni altrui (Under Pressure dei Queen, di cui firma la celebre linea di basso). Qualcosa di vicino all’utopia ottocentesca dell’Opera d’arte totale, quindi dell’arte politica nell’unico senso che questa parola attraversa senza agitare compromessi. Quanto alla nostra modesta weltanschauung, non è cambiato nulla, da lunedì scorso. Anzi. «Nonostante un nuovo album, David Bowie annuncia di aver lanciato la sua ultima pietra rotolante. È la musica del Demonio - ci mette in guardia - sterile, fascista, assolutamente pericolosa. Ecco perché ha abdicato al proprio sfavillante trono per altre promettenti carriere. Come il cinema. O il dominio del mondo». Non è il 2016, ma l’alba del 1976, l’anno del finto saluto nazista alla Victoria Station (dopo un arresto per droga) e dei veri libri clandestini Reich-friendly (confiscatigli al confine polacco), del soggiorno berlinese con Iggy Pop (155, Hauptstrasse), dell’amore paranoide per la cabala e la magia nera (il racconto del periodo nero di Bowie lo trovate nel volume Helden. David Bowie und Berlin di Tobias Rüther).

Dunque, siamo nel 1976. Nel numero di febbraio, Cameron Crowe dedica al sottile Duca (soltanto uno dei suoi eteronomi) un formidabile ritratto su «Rolling Stone», che all’epoca nell’area anglosassone aveva più lettori di quanti ne avessero i periodici generalisti e gli dedica la copertina; «la macchina fotografica non mente mai, in questo caso racconta solo la metà della storia», dice lui; nella foto di Steve Shapiro intuiamo una leggera smorfia che accompagna la presa stabile su un’amata Gitanes (senza filtro), in realtà in quel momento Bowie sta sparando «con una pistola enorme» a non meglio precisati piattelli, non si sa perché proprio durante lo shooting per Rolling Stone; apprendiamo dalla fonte che, in quel periodo, «mangiavo poco, ma ingerivo una quantità spropositata di additivi chimici».

Quarant’anni fa Bowie, visionario (forse anche in virtù della pupilla perennemente dilatata a causa di un cazzotto karmico, a partire dal 1962) era già la precisa icona pop, per non dire mainstream, che però non ha mai smesso di nutrirsi dei sogni e delle paure della pop civilisation, precisamente per mezzo secolo (contando la precoce esperienza con The Manish Boys), abbracciando una sorta di «creazionismo estetico» (tutto già in potenza), invece dell’evoluzionismo di molti dei suoi pari. Il grande innovatore era già vecchio quarant’anni fa e perciò è ancora attuale. Forse tutto comincia davvero ora, per una serie di ragioni. L’arte di Bowie, artista totale, prevede un percorso di sommellerie cross-disciplinare. Ogni frammento, ogni opera vanno abbinati. E serviti alla giusta temperatura emotiva. Ma senza cadere nel gioco di cosa può aver ispirato cosa; questione di fluidità di connessioni e corrispondenze. La trilogia berlinese con Brian Eno e Iggy Pop (Low, Heroes e Lodger) può essere associata al memoir concentrazionario del romanziere (e parapsicologo) ungherese Arthur Koestler Buio a mezzogiorno (1940) e al saggio sulla fine del Secolo Breve nell’arte Oltre il Brillo Box del filosofo americano Arthur Danto (1992). Mentre per Heathen del 2002 (con le grandi cover di Cactus dei Pixies, I’ve Been Waiting for You di Neil Young, I took a Trip on a Gemini Spaceship di Legendary Stardust Cowboy e un remastering di culto come Slip Away, omaggio alla star tv del New Jersey Uncle Floyd) e per Reality dell’anno successivo (con New Killer Star ispirata a Ground Zero, vicino a cui Bowie risiedeva l’11 settembre) si consigliano due classici come Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa (1958) e Il Maestro e Margherita di Bulgakov (1967). L’elenco completo dei 75 libri che reggono l’impianto esistenziale di Bowie la trovate su brainpickings. La scorsa settimana (l’8 gennaio, giorno della nascita) è uscito Blackstar, annunciato a fine novembre scorso da un singolo e da un cortometraggio (proprio così, non si tratta di un video) onirico e carico di angoscia che è quanto di più vicino all’arte contemporanea che il sovente patinato mondo del videoclip ci abbia offerto finora (con rare eccezioni, a partire dal visionario Corbijn che potrebbe regalarci alcune sorprese su Bowie nei prossimi mesi) e ricorda, per atmosfere e vocazione, gli esperimenti visivi che Lynch fece con i suoi Works on Paper, esposti alla Fondation Cartier nel 2007 (il cofanetto in edizione limitata è ancora acquistabile, a 800 euro, sul sito della Fondazione), così come la seconda preview, il brano Lazarus, che è anche il nome della pièce in questi giorni in scena a New York, scritta insieme al drammaturgo Enda Walsh, ispirata al romanzo di fantascienza L’uomo che cadde sulla Terra di Walter Tevis e all’omonimo film nel 1976 in cui lo stesso Bowie compare come attore. Se l’ultima Stella Nera disegna i titoli di coda delle visioni del Grande trasformista, la copertina dell’opera totale è stata composta nella vera (e attuale) casa di Bowie; nella notte senza fondo del cosmo, Chris Hadfield, comandante della stazione spaziale internazionale, nella primavera del 2013 registra il primo video musicale della storia in assenza di gravità, dallo spazio. È Space Oddity del 1969, a sua volta un omaggio dell’artista alla Missione Apollo 11. La cosa aveva qualche probabilità di risultare kitsch, invece trasmette la tenerezza e l’urgenza delle cose destinate a restare: «Torre di Controllo a Maggiore Tom, comincia il conto alla rovescia. E che Dio ti assista».

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