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Wall Street secondo Mark Twain

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Wall Street secondo Mark Twain

I vostri guai non vengono da ciò che non sapete, ma da ciò che siete sicuri di sapere. Suona su per giù così la citazione di Mark Twain che apre La grande scommessa (The Big Short, Usa, 2015, 130’). Che differenza c’è tra uno stupido a tempo pieno e un intelligente, che però viva nella certezza di conoscere già tutto quel che c’è da conoscere? Prima o poi, l’uno e l’altro andranno a sbattere contro la realtà. E la scopriranno dura. Potrebbe esser questo il senso del film che Adam McKay e il cosceneggiatore Charles Randolph hanno tratto da un libro pubblicato nel 2003 da Michael Lewis.

La storia di fondo è nota. In parte, il cinema americano l’ha già messa in scena con Margin Call (2011). Il film di J.C. Chandor raccontava la notte del 15 settembre 2008, la stessa del crollo della Lehman Brothers, dopo il quale fu chiaro che la crisi finanziaria sarebbe diventata globale. Quel lunedì, dunque, il chief executive di una multinazionale finanziaria di fantasia – in termini più diretti, e meno ipocriti, il suo padrone – riusciva a salvare se stesso, i suoi soldi e il suo potere scaricando ogni perdita su investitori e risparmiatori. Per anni nessuno s’era accorto dell’avvicinarsi della catastrofe. Così amava pensare e far pensare chi ne portava la responsabilità diretta. Quanto a Chandor, la sua sceneggiatura era meno ottimistica: tra i collaboratori della multinazionale, più d’uno sarebbe stato in grado di sapere, se avesse voluto. Ma, per chiosare Mark Twain, è scomodo rinunciare alle proprie certezze, soprattutto quando ci si crede intelligenti.

Per loro fortuna, i protagonisti del film di McKay hanno del mondo un’immagine più complessa di quella prevalente e trionfante fra i dirigenti delle banche d’affari, in America co-me in Europa. Invece di scommettere sulla tenuta del mercato fondiario, e sulla capacità dei mutuatari subprime (a rischio) di onorare il loro debito, scommettono (e vincono) sul crollo dei prezzi delle case, e dunque sul crollo del sistema finanziario fondato sui cosiddetti derivati. Uno dopo l’altro, la voce fuori campo presenta e racconta questi eroi inattesi. Michael Burry (Christian Bale) è un consulente finanziario con un occhio di vetro, e tuttavia molto lungimirante. Mark Baum (Steve Carell), legato a un potente gruppo finanziario, è da sempre nemico giurato di truffe e raggiri (ha cominciato da ragazzino, studiando con puntiglio la thorah, giusto per mettere alla prova la coerenza di dio). C’è poi poi Jared Vennett (Ryan Gosling), operatore finanziario di una grande banca e voce narrante, oltre ai giovani e intraprendenti outsider Charlie Geller (John Magaro) e Jamie Shipley (Finn Wittrock). I due si fanno assistere dal più anziano Ben Rickert (Brad Pitt), che da Wall Street s’è ritirato in campagna, a combattere una guerra privata contro inquinamento e agricoltura transgenica.

Ognuno per conto proprio, questi scommettitori antisistema hanno intravisto una verità insospettata: molto velocemente, gli indicatori di mercato corrono diritti verso la catastrofe. È inutile che lo raccontino in giro. I loro colleghi sono tutti troppo intelligenti, per accettare anche solo la possibilità che proprio questa intelligenza stia per segnare la fine del “business”. Eppure, senza affaticarsi con analisi finanziarie, basterebbe andarsene per la provincia d’America, parlando con gli uomini e le donne quotidiani che sempre meno riescono a far fronte ai loro mutui. O basterebbe scrutare più a fondo nei giudizi delle agenzie di rating, e nelle loro contraddizioni spesso plateali. Perché nessuno lo fa, se non questo pugno di eroi paradossali?

La risposta del film sta nel realismo sarcastico del grande Mark Twain, ma solo in parte. Per un’altra parte, invece, sta nei silenzi deliberati di chi guidava il mercato, e di chi avrebbe dovuto controllarlo. Questi silenzi hanno davvero condotto il gioco, fino al settembre 2008. Poi, solo uno tra i responsabili ha pagato di persona. Parola di Adam McKay, Charles Randolph e
Michael Lewis.

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