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Il mosaico della New Wave

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Il mosaico della New Wave

  • –Laura Leonelli

Se la sera del 15 febbraio 1981, un cartomante, uno dei tanti tarot reader di New York, gli avesse predetto che trentacinque anni dopo avrebbe festeggiato in assoluta sobrietà l’anniversario della mostra culto della nuova scena artistica americana, e che lo avrebbe festeggiato a Lugano in una bella casa con vista sulle montagne, Edo Bertoglio, 65 anni, straordinario fotografo della New Wave e protagonista della stagione più creativa dell’East Village, non ci avrebbe creduto. E invece quel ragazzo in blouson di pelle nera è diventato un elegante signore in giacca e cravatta, e oggi nel suo salotto, accanto alla splendida moglie Viviana, ricorda con affetto e a tratti coraggiosa autoironia quella stagione memorabile e il suo culmine, la mostra New York/New Wave, curata da Diego Cortez al P.S. 1, nel Queens.

Come l’immenso mosaico di una generazione - forse la prima così narcisa da fare opera d’arte di sé negli amori di una famiglia allargata, nelle euforie e depressioni abissali – le pareti accoglievano tra le tante le immagini di Jean Michel Basquiat, Nan Goldin, David Armstrong, Larry Clark, Robert Mapplethorpe, David Byrne, Keith Haring, e poi quelle del nume tutelare di ogni eccesso, William Burroughs, e naturalmente quelle di Edo. Ma a differenza di altri autori che immergendosi nel ventre di una quotidianità tossica, producevano pagine di diario volutamente sciatte, Bertoglio ha sempre ribadito la voglia di eleganza anche di fronte ai soggetti più estremi. Ad aiutarlo forse è stato il formato discreto della Polaroid, come racconta l’entusiasmante volume Edo Bertoglio. New York Polaroids 1976-1989, curato dalla Yard Press di Roma. O magari è stata la passione per le figurines, fragilissime creature votate all’edonismo notturno, tra lo Studio 54 e il 77 di White Street. O perché no, l’origine di quest’anima doppia, tra ribellione e compostezza, è proprio Lugano, non quella in riva al lago, ma quella più elitaria di Montagnola, sulla cima della Collina d’oro.

La casa dei signori Bertoglio dista pochi minuti da quella di Hermann Hesse. Quanto basta per sentire ancora oggi correre i lupi della steppa, dell’insofferenza giovanile e di Wall Street. «A quindici anni era impossibile vivere a Lugano – ricorda Edo – io cercavo l’aria della città, volevo il cemento». Accontentato. Nel 1974 il fotografo, già di talento, è a Parigi, studente del Conservatoire Libre du Cinéma Francais, e «tra un film e l’altro avevo ritratto Mattia Bonetti, nudo, portato a passeggio di notte come un cane dalle bellissime gambe di Adeline Andre. Non era una foto da album di famiglia come quelle che faceva mio padre, ma tre anni dopo a New York sono riuscito a venderla per 1.600$ al Club Quest, The Multi Sexual Review, un giornale che potevano sfogliare con eguale soddisfazione lettori etero e gay».

Veloce passaggio a Londra, e poi nel 1976 in una gelida mattina di ottobre, nel cuore di una delle peggiori crisi economiche americane, Bertoglio si ritrova ai piedi dell’Empire State Building insieme a Maripol, fidanzata, musa, sensibilissima stylist tanto da curare guardaroba e gioielli della prima Madonna. «Eravamo smarriti, pochi dollari e cinquant’anni in due. Ma a un tratto, per intuito, per amore del cinema, per istinto di sopravvivenza siamo saliti sulla terrazza del grattacielo. Allora ho guardato la città, i suoi tetti, quello che succedeva sui tetti, e poi ho puntato lo sguardo verso l’Oceano, e ho capito che quella distesa di nero catrame, nero come i nostri giubbotti, era la scenografia che cercavo». Era Downtown. Un’isola dei pirati. Abbandonata. Gli affitti, bassissimi.

Portfolio sottobraccio, Edo inizia il grand tour delle redazioni. «Molti no, sempre annunciati da bigliettini gentili, finché un giorno mi faccio coraggio, entro nella redazione di Interview, e quasi senza rendermi conto Robert Hayes, caporedattore, mi dice aspetta che chiamo Andy. Colpo al cuore. Un attimo e appare il mito della mia vita, Andy Warhol. Una settima dopo ho iniziato a fotografare le band che Glenn O’Brien recensiva per il giornale, e mi si è aperto un mondo». Nel formato dell’Hasselblad e della Polaroid entrano Blondie, è di Edo la copertina di Parallel Lines, i Tuxedo Moon, i B-52’s, Madonna ancora nella sua carnalità punk mediterranea, «ma avevamo capito tutti che avrebbe sfondato», quindi i Plastic e i Lounge Lizards di John Lurie (da non perdere fino al 31 gennaio la mostra di suoi acquerelli, curata da Michele Bonuomo presso la M77 Gallery di Milano).

Accanto ai musicisti, disco music compresa, appaiono gli artisti. Momento di grazia, la collettiva alla Public School 1. «Un evento straordinario, creato dal nulla. Al posto della freddezza dell’Arte Concettuale e della Land Art i critici di Up Town, assolutamente spiazzati e impreparati, si sono trovati di fronte alla forza primitiva dei graffiti, alla fisicità senza pudori della cultura gay, e a una fotografia che esaltava la novità del nostro stile, subito copiatissimo». Il tempo di fiutare l’affare e Downtown, cui Edo dedica un film, protagonista Basquiat, cambia temperatura. Nello stesso anno, nel 1981, Reagan diventa presidente degli Stati Uniti. Pochi mesi e i giovani lupi di Wall Street raggiungono le gallerie di Soho. I dollari alterano il mercato e la percezione di sé, forse più dell’eroina che ormai prende il sopravvento e frantuma il destino di un gruppo di amici.

La comunità di Downtown si adagia, sparisce, ognuno parte per la sua strada, molti muoiono, altri si salvano per miracolo. Io sono uno di quelli», ammette Bertoglio. Nel 1990 grazie a un’amica, Micaela a cui è dedicato il libro, Edo lascia New York con un biglietto di sola andata. La meta è casa. «Non avevo altro che i vestiti che indossavo. Il resto, le macchine fotografiche, le moto, una collezione d’arte, tutto venduto per comprare la droga». Dal baratro si salvano due casse di fotografie, custodite a casa di Micaela. «Un anno dopo, ripulito, sono tornato a New York a riprenderle. E passando davanti alla redazione di Interview mi sono venute in mente le parole di Andy Warhol al nostro primo incontro, quando aveva scoperto che venivo da Lugano. “Ma perché te ne sei andato?” E io candidamente, “perché è una città noiosa”. E lui, “but I love Lugano, I love boring cities”».

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