Cultura

La libreria Bocca, Marotta e la «sua casa» in Galleria

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La libreria Bocca, Marotta e la «sua casa» in Galleria

Mi è capitato tra le mani un libro elegante di Stefano Zuffi (Galleria Vittorio Emanuele, Dalla storia al domani , «Fuori Collana» di Feltrinelli ) e ho preso a sfogliare avidamente, perché parla di qualcosa di familiare che mi intriga. Mi piace sostare in Galleria anche brevemente, quando posso, lo faccio di giorno a volte a sera tarda prima di rincasare, inseguo con lo sguardo il passo svelto di donne e uomini e ho la sensazione che la bellezza cosmopolita di Milano a suo modo si disveli. Sempre qui, in Galleria, ho capito per la prima volta che qualcosa stava cambiando per davvero quando ho visto sparire dalla vetrina della libreria Bocca il cartello dove era scritto in stampatello maiuscolo: «La crisi rischia di farci chiudere, sostieni la più antica libreria d'Italia regalandoti un libro». Voleva dire che i Lodetti, padre, figlia e figlio, Giacomo, Monica e Giorgio, un capitolo di storia unico della cultura libraria italiana, non hanno mollato e sono sempre lì dal lunedì alla domenica senza pausa, in quel posto magico che odora di antico e moderno tra cataloghi, libri d’arte e rari, su un pavimento fatto di pezzi unici di arte contemporanea, alle prese con grandi e giovani artisti in un connubio che dura da quarant’anni tra tela e libro e parla al mondo.

Il tomo di Zuffi è impegnativo, a prima vista potrebbe spaventare, ma quasi senza accorgermene mi ritrovo in mezzo a un gioco sottile di foto e testi che mi consentono di ripercorrere un secolo e mezzo di storia milanese attraverso i segreti, i colori, gli occhi e le emozioni del suo “salotto”. Si parte nel 1865 con il progetto geniale di Giuseppe Mengoni e si arriva fino ai cantieri di oggi che restituiscono «l’architettura offuscata dal tempo», il segno concreto che lì, tra i due gioielli della Scala e del Duomo, in quella croce di strade con l’ottagono al centro, interamente coperta di vetro, c’è qualcosa che custodisce il cuore profondo della città: il tratto costitutivo italiano e risorgimentale ma già europeo, l’invenzione della città borghese con promenade e crocevia coperto, teatro dei movimenti futuristi e delle dimostrazioni fasciste, «bella e fragile con il suo cappello di vetro» sotto i raid aerei della seconda guerra mondiale; salotto e retrobottega allo stesso tempo, vetrina del mondo e luogo di lavoro, incrocio di un’umanità che non si ferma mai, testimone nel tempo di una laboriosità e di un mecenatismo che appartengono alla storia nobile della città e fa sì che siano le grandi firme della borghesia imprenditoriale a restituire oggi ai milanesi il loro salotto con i suoi colori e le sue luci.

Passo da un manifesto d’epoca all’altro, ma c’è un passaggio che mi colpisce per più di una ragione e che ho deciso di riprodurre di seguito. «Dopo la morte del cardinale Schuster, il giorno dell’Epifania del 1955 si insedia solennemente in Duomo il nuovo arcivescovo di Milano: è il cardinale Giovanni Battista Montini, che otto anni dopo diventerà papa con il nome di Paolo VI. È anche in onore del nuovo arcivescovo che si stabilisce una data simbolica per la conclusione del restauro della Galleria: tutto deve essere pronto per il 7 dicembre 1955, il giorno di Sant’Ambrogio, e tradizionalmente anche la data della prima della Scala. Il contributo determinante e la spinta finale vengono dall’Associazione esercenti e commercianti della Galleria. Il risultato è raggiunto, e fra le persone che fanno festa c’è anche il regista Giorgio Strehler, che ritrova l’amato “grande teatro umano”. Gli fa eco lo scrittore napoletano, Giuseppe Marotta, che intitola Mal di Galleria la sua raccolta di racconti ambientati a Milano e scrive: «La Galleria? Scherziamo? Le appartengo e mi appartiene. È casa, è ufficio, è strada, è ombrello, è tutto per me. Ristoranti, caffè, bigliardi, farmacie, bagni, parrucchieri, lustrascarpe, donne formose ed eleganti, uomini vivaci, ombra d’estate e raggi infrarossi d’inverno. Io ci campo da re. Per mesi interi, a volte, non mi sposto da qui. Individui perduti da anni, chi stabilitosi a Foggia, chi a Zurigo o a Londra, se tornano occasionalmente a Milano, in Galleria li ritrovo».

I Prada, i Versace, i Feltrinelli che hanno restituito oggi ai milanesi la loro Galleria, rispettandola e restaurandola, hanno preso il posto dell’Associazione esercenti e commercianti della metà degli anni Cinquanta e dimostrano che i tratti cromosomici di una certa milanesità non si sono, per fortuna, smarriti. Rileggere un brano di Marotta mi produce un tuffo al cuore perché ritorno ragazzo e mi rivedo a leggere e rileggere una, due, tre volte A Milano non fa freddo , Le milanesi , e così via, rivivo l’emozione del “sole dei caloriferi” e del “riscatto del lavoro”, di un certo modo di raccontare che parla di umanità e tocca dentro. Ha scritto un capolavoro, L’oro di Napoli , Giuseppe Marotta, e molta narrativa di qualità ma anche tanto tanto altro, sempre di qualità, testi cinematografici e di canzoni, in questo caso quasi tutti dialettali, lavori teatrali e critica cinematografica. Ha amato Milano e non ha mai “lasciato” Napoli. Eppure in molti, troppi, lo hanno ingiustamente liquidato con sufficienza come uno scrittore di impronta popolare e, poi, dopo la morte, più di mezzo secolo fa, semplicemente rimosso. Anche per questo, come parziale risarcimento, mi piace ricordare il vecchio, caro, Marotta e la “sua casa” in Galleria.

roberto.napoletano@ilsole24ore.com

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