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«Grozny Blues» di Nicola Bellucci: sguardo poetico sulla Cecenia senza pace

E intanto, in Cecenia? Ci sono luoghi di cui le pagine dei giornali si riempiono d’improvviso per poi dimenticare, Grozny è tra questi. Quando per caso se ne rivede l’immagine, a vent’anni dalle guerre con Mosca, penseresti a un miracolo firmato Ramzan Kadyrov, il ceceno che ha sottomesso la propria terra dall’interno e ora la possiede, e la dirige per conto del Cremlino. Pugno di ferro per procura. In superficie Grozny è una città moderna, ampi boulevard e luci e la grande moschea al posto dei palazzi sventrati e dei blindati russi. C’è posto anche per il blues. Vita normale al posto del buio. Non è così.

Lo sguardo di Nicola Bellucci che con “Grozny Blues” si posa sulla Cecenia è pieno di sensibilità, e compassione. «Si trattava di rompere una specie di paradigma - spiega il regista italiano -: quello del silenzio, che è gravato sul popolo ceceno dal periodo successivo alle due guerre. Una sorta di umiliazione continua della dignità umana, che impedisce qualunque forma di protesta e di lotta politica, o anche solo di critica». Il film, scritto con Lucia Sgueglia e prodotto in Svizzera, in programma il 27 gennaio al Trieste Film Festival, riesce a infondere poesia nel collage di voci, volti, drammi, sprazzi di una terra costellata di dolore. Senza commentare. Seguendolo, presto si perde il confine tra il passato e la Grozny presente perché le immagini della guerra si fondono in continuazione in quelle riprese negli stessi luoghi, ricostruiti. Ma popolati da altre vittime, che tendono la mano a quelle di allora. Come a dire: c'è davvero un confine?

La ricerca di una risposta è affidata a un gruppo di amiche. Donne senza nomi famosi. Bellucci rende omaggio alle attiviste per i diritti umani che hanno trasferito nel film il loro archivio di immagini riprese durante le guerre con Mosca. «Dovevamo assicurarci che il ricordo restasse vivo, far conoscere la verità», spiegano. Ma qualcuno è disposto ad ascoltarla? «La Russia – nota Lucia Sgueglia – è tornata al centro delle news negli ultimi due anni, tra il conflitto in Ucraina e l'intervento militare in Siria. Ma c’è come un’amnesia totale nei confronti di questa relazione con la Cecenia, che si crede in qualche modo risolta. Invece, proprio in seguito a Ucraina e Siria, la situazione all'interno della repubblica è nuovamente peggiorata: la Cecenia è una specie di sismografo della Russia. E ora la crisi economica rischia di farla esplodere nuovamente. Una pace senza pacificazione non può condurre a nessuna stabilità, come si illude Vladimir Putin. La resa dei conti con il passato prima o poi dovrà arrivare».

Il lavoro di Tayta, Tais, Zargan, Zainap e Fatima non è finito. «Lavoro da anni nella difesa dei diritti umani – racconta Zainap -, e capisco che l’Europa non fa in tempo a reagire a tutte le violazioni che avvengono nel mondo. Oggi in Cecenia non c’è più la guerra. Ma la paura, in questa Cecenia pacificata, è ancora più grande di prima. Le operazioni militari, i rapimenti, le torture da parte dei soldati russi non sono passati senza lasciare traccia. E le attiviste cecene hanno una grande responsabilità, ancor più persone hanno bisogno di loro: le vittime, gli invalidi di guerra, gli orfani. Volevamo un film che mostrasse tutti gli aspetti di questi ultimi 20 anni per chi vive in Cecenia, perché il mondo li conoscesse».

«Grozny Blues – aggiunge Nicola Bellucci – è un film che mostra per la prima volta la vita dei ceceni dal basso, e non dall'alto attraverso lo sguardo del potere, degli oppressori. Un film “umanistico”, che tenta di entrare nei meandri della società locale, andando oltre i cliché: le protagoniste, come gli altri personaggi, non sono solo vittime dolenti e piangenti, non si nascondono dietro un velo nero, ma sono persone vere, che ridono e scherzano e osano dire ciò che pensano, nonostante il fardello di un passato (e un presente) brutali. È un film che tenta di stimolare la discussione anche all'interno della società cecena, e quindi un film politico, anche se non convenzionale, sui diritti umani».

Per le vie di Grozny, i passi delle protagoniste si intrecciano con quelli di ragazzi troppo giovani per ricordare la guerra, intrappolati in uno strano limbo di tradizioni spruzzate di vita contemporanea. «Abbiamo bisogno di una Woodstock», dicono, ma sono cresciuti sotto la legge di Kadyrov: l’ombra nera in cui ancora si può scomparire senza lasciare traccia, battuti, torturati, uccisi. Come allora; ora, però, colpiti da una mano più invisibile, annidata tra le pieghe del Caucaso. Atrocità intrecciate alla normalità della vita. «Quelli al potere dicono che la guerra non c’è mai stata – si dispera una donna -, che bisogna cancellare le tracce. Ma allora, la mia sofferenza?».

«Grozny brucia dal 1994. Non ha mai smesso». E in questa città, le protagoniste del film non si stancano di raccogliere altro dolore, di visitare famiglie, di ascoltare nuova disperazione. La loro grandezza è tale da spingerle a farlo anche se ormai non sembra più esserci motivo di speranza. Continuano a filmare! Riuscendo a volte anche a sorridere. «Se perdiamo la forza e la speranza, e smettiamo di lottare per la pace e la giustizia – ci dice Zainap - perdiamo noi stesse, e quello che abbiamo fatto in questi anni. Continueremo a lottare, difenderemo quelli che hanno bisogno di noi. Questo è il nostro dovere».

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