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Ordine nel disordine mentale

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Ordine nel disordine mentale

Robert Leopold Spitzer, che The Lancet definisce «the most influential psychiatrist of his time», è morto, un mese fa, a 83 anni. Figlio di Benjamin e Esther Spitzer, un ingegnere e una pianista, cresce nell’Upper West Side di Manhattan. Nel 1953 si laurea in psicologia alla Cornell University e poi nel 1957 in medicina alla New York University. Nel 1966 si diploma al Columbia University Center for Psychoanalytic Training and Research, ma, scettico verso la psicoanalisi, dedicherà la sua vita alla diagnosi psichiatrica. Dare alla psichiatria una lingua franca e una struttura diagnostica basata su standard di ricerca è stata la sua missione. Gran parte dell’impianto e della nomenclatura diagnostici a cui oggi ricorrono gli psichiatri di mezzo mondo è frutto del suo lavoro di responsabile delle task force che diedero vita alla terza edizione del DSM, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders dell’American Psychiatric Association (APA). Quella del 1980 che, insieme alla versione revised del 1987, introdusse alcune tra le più significative, ma anche controverse e talora “ingombranti”, categorie diagnostiche.

Nel lexicon psichiatrico incluse numerose etichette: anoressia, disturbo bipolare, disturbo da panico, disturbo da stress post- traumatico e molte altre diagnosi i cui nomi oggi ci sono familiari. Il manuale triplicò le sue dimensioni e iniziò a esercitare un enorme influenza nella clinica come nella ricerca. Un successo inatteso, più di un milione di copie. «Solo un maestro della psicometria poteva creare il DSM-III – afferma Allen Frances – e solo un maestro del mercato poteva convincere i clinici del bisogno di usarlo». Tuttavia, con la quarta edizione, che fu proprio Frances a coordinare, l’APA decise di attenuare la leadership di Spitzer, considerato da alcuni troppo autoritario. Qualcosa gli era sfuggito di mano. Nel 2012 afferma di essere preoccupato che il sistema iperdettagliato da lui ideato stava diventando troppo ampio, e correva il rischio di patologizzare comportamenti che rientravano nella normalità. Accusa che Frances rivolge in modo ancor più radicale all’ultima edizione del DSM, la quinta. Si torna insomma all’annoso dibattito «limiti e vantaggi del DSM», su queste pagine già ampiamente affrontato (vedi 10 marzo 2013, 20 aprile 2014, 31 agosto 2014), che scioglierei dicendo che basta considerarlo una guida e non una bibbia, non colludere con le case farmaceutiche che conducono campagne commerciali cavalcando le novità diagnostiche, non ridurre la formazione psichiatrica all’apprendimento di una lista di sintomi da compilare, ignorando la centralità della relazione e la soggettività del paziente (e del clinico).

L’idea di Spitzer era che, per essere credibile, l’intera comunità psichiatrica doveva avere un linguaggio condiviso riferito a ciò che si vedeva nella pratica clinica. Il contesto professionale in cui era cresciuto dava poca importanza all’assessment clinico, e lui era rimasto molto colpito da alcuni studi che, all’inizio degli anni ’70, dimostravano gli effetti terapeutici negativi del disaccordo diagnostico. A quell’epoca, in effetti, le diagnosi potevano variare parecchio, da nazione a nazione e da psichiatra a psichiatra. Lo stesso paziente poteva essere diagnosticato ansioso da un clinico, depresso da un altro, nevrotico da un altro ancora. Spitzer puntò tutto sull’accuratezza diagnostica: questa fu la sua forza, e al tempo stesso il suo limite.

L’inevitabile conseguenza fu la medicalizzazione della sofferenza mentale, la relativizzazione delle componenti relazionali, la riduzione del quadro psicopatologico a un elenco di sintomi presenti/assenti, una visione dei disturbi mentali come idee platoniche. D’altro canto, senza la possibilità di formulare diagnosi affidabili e, in un certo senso, “misurare” sintomi e comportamenti, il rischio di indicazioni terapeutiche inappropriate, se non addirittura dannose, è elevatissimo. Spitzer combatté per differenziare condizioni cliniche generiche come la nevrosi d’ansia in forme sintomatologicamente descrivibili, per esempio il panico, la fobia sociale o il disturbo d’ansia generalizzato. Termini impregnati di pregiudizio, come “frigidità”, furono ridefiniti in termini clinici, come “inibizione del desiderio sessuale”. Litigò con tutti. Con gli psicoanalisti, ai quali bocciò il termine “nevrosi”, mostrandosi insofferente verso i misteri dei conflitti inconsci («Piuttosto che appellarsi a un’autorità, l’autorità di Freud – dice in un’intervista del 2005 – la domanda è: ci sono degli studi? Ci sono evidenze scientifiche? Siamo guidati da dati?»), e con le femministe, perché volle includere la sindrome pre-mestruale tra i disturbi mentali. Fu però molto amato da gay e lesbiche, perché a lui si deve una scelta che cambiò la storia: l’eliminazione della diagnosi di omosessualità dal DSM. Le ricadute sociali, politiche, psicologiche di questa decisione sono sotto gli occhi di tutti. In occasione della morte di Spitzer, lo psichiatra Jack Drescher dichiara: «Il fatto che il matrimonio gay sia oggi una realtà lo dobbiamo in parte anche a Bob».

Paradossalmente, proprio Spitzer, il paladino della depatologizzazione dell’omosessualità, qualche anno fa finì nel mirino sia dei movimenti LGBT sia dell’APA. La causa fu un’incauta ricerca in cui si proponeva di dimostrare il successo della “terapia riparativa” in persone gay particolarmente motivate. Lo studio conteneva errori e ingenuità (per esempio si basava su semplici risposte telefoniche alla domanda «dopo la terapia ha cambiato orientamento sessuale?»), ma Spitzer mostrò la sua tempra e il suo rigore scientifico sia imbarcandosi in una ricerca così follemente “controcorrente”, sia riconoscendo poi, con articoli e pubbliche ritrattazioni, l’inattendibilità della sua ricerca. Aggiungendo: «è forse l’unica cosa della mia carriera di cui mi pento». Era attratto magneticamente dalle dispute scientifiche e spinto continuamente dal desiderio di sfidare l’establishment psichiatrico. Nel ricordarlo, Frances ne sottolinea «la passione per la giustizia, la conoscenza scientifica, l’ostinata determinazione, l’acume politico, le capacità dialettiche, e il piacere per le discussioni infervorate». Concludendo che «Bob era la forza irresistibile che alla fine riusciva a rimuovere l’oggetto inamovibile».

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