Cultura

Akram Khan nel ring dei leoni. Destino e vendetta dal poema indiano…

  • Abbonati
  • Accedi
Danza

Akram Khan nel ring dei leoni. Destino e vendetta dal poema indiano “Mahabharata”

Il grande tronco d'albero tagliato alla base, con delle canne di bambù piantate dentro delle fenditure che si apriranno nel finale, è uno spazio epico, un luogo di memorie ancestrali, di incontro fra terra e cielo. In questo ring infurierà una battaglia, uno scontro tra un uomo e una donna, tra il principio maschile e il femminile, tra il cuore e la mente, tra un esercito invisibile e un guerriero, tra uomini e dèi.

Danzatore globale, re della fusion coreografica, l'anglo-bengalese Akram Khan, diventato nome di riferimento della danza mescolando il contemporaneo allo stile indiano kathak, torna ad indagare l'antico poema in sanscrito “Mahabharata”, saga millenaria della rivalità tra due grandi famiglie, con lo spettacolo “Until the lions” (debutto al Roundhouse di Londra, una coproduzione internazionale tra cui Romaeuropa Festival) che prende il titolo da un proverbio africano: “Fino a quando i leoni avranno i loro storici, la storia della caccia darà sempre gloria al cacciatore”.

Ispirandosi all'adattamento dello scrittore Karthika Naïr, Khan focalizza la coreografia sulla vicenda della principessa Amba rapita, prima della cerimonia per la scelta dello sposo, dal temuto e malvagio guerriero Bheeshma il quale però non può possederla per un voto di celibato fatto al padre, la cui rottura provocherebbe una sciagura. Amba si ribella perché è già innamorata di un altro principe, e per potersi vendicare del rapimento si brucia rinascendo sotto forma di uomo, l'androgino Shikhandi, per poter combattere col guerriero e ucciderlo.

Questo in sintesi la trama. Ma la narrazione, ancor più intricata, non necessita di piena comprensione per farsi avvolgere dalla danza vigorosa, ondeggiante, felpata, poi vorticosa nella verticalità e orizzontalità di Khan che rapisce i sensi. I movimenti dei tre magnetici danzatori – Ching-Ying Chien, la principessa, Christine Joy Ritter, il guerriero androgino, e lo stesso Khan –, non illustrano, ma racchiudono simboli e immagini. Rimandano, certo, a scatti felini, a posture animalesche, a moti striscianti, a segni combattivi, a frammenti passionali, a schegge rituali, a gestualità rarefatte, caricandosi di segni orientali contaminati da un lessico stilisticamente contemporaneo scritto sui corpi tesi degli interpreti.

Specie nel duetto dove Bheeshma, pur essendo attratto dalla donna, la tiene a distanza, influenzato com'è dalla presenza interiore del padre rappresentata, nello spettacolo, da una testa nera conficcata sulla punta di una canna che incombe sulla scena per tutto il tempo. La cifra stilistica di Khan, pacata e convulsiva, tra lentezze da Tai Chi e scatti serpentini, trova un vibrante amalgama nella sequenza di questo sentimento che oscilla tra paura e sensualità, resistenza e seduzione: braccia e mani che sfiorano i corpi e percuotono il petto, intrecci di gambe saltellanti, avvinghiamenti e roteazioni a spirale. E quella mano aperta a coprire il viso, che ritorna in più momenti, come una maschera di difesa. E se l'inizio dello spettacolo emana un'inquietante atmosfera tribale, man mano quel mondo sembra umanizzarsi.

Poiché dentro quei movimenti ritroviamo sentimenti universali. Li determinano anche, quali testimoni degli avvenimenti e altrettanti protagonisti della storia, i quattro musicisti – Vincenzo Lamagna, Sohini Alam, David Azurza, Yaron Engler – seduti ai bordi del palco circolare che battono pugni sulla scena, gridano, cantano, s'alzano in processioni di festa o di riti funesti. La temperatura emotiva, il climax delle azioni, è reso dalla musica composta dall'italiano Lamagna capace di evocare e sfumare da un mondo terragno a quello mistico alternando suoni percussivi – che ricordano le tammurriate mediterranee – ad arpeggi di chitarra, a sonorità elettroniche taglienti o carezzevole.

Guerrieri anche loro nel finale quando, dopo l'uccisione di Bheeshma, che avverrà trafitto da una canna mentre tra fumi e luci dal basso si alzerà come un terremoto la scena incrinata, con fragore getteranno sulla pedana una moltitudine di giunchi, aggiungendo allo sconquasso della scena quello cosmico. E quello dell'animo, rappacificato nella quiete che subentra.

“Until the lions”, coreografia Akram Khan, testo Karthika Naïr, dramaturg Ruth Little, visual design Tim Yip, musiche di Vincenzo Lamagna in collaborazione con Sohini Alam, David Azurza, Yaron Engler, Akram Khan, Christine Joy Ritter. Coproduzione Roundhouse/Sadler Wells di Londra.

© Riproduzione riservata