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A Roma vanno in scena Cenerentole con la lupara

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Teatro e danza

A Roma vanno in scena Cenerentole con la lupara

Femminista? No. Attualizzata? Nemmeno. Simbolo di qualcos'altro al di fuori della Storia? Nessuna di queste possibilità. La Cenerentola di Rossini riletta con straordinario gusto ed energia da Emma Dante è un'autentica sorpresa. Compatta, sapiente, plasmata con mano teatrale di raro mestiere, è soprattutto una regia creata sulla musica: sui suggerimenti visivi scatenati dalle note, liberamente tradotti sul palcoscenico. Surreale, macchinistica, frenetica, bizzarra, dalla prima all'ultima scena.

Dovendo trovare una parentela, per questo spettacolo che all'Opera di Roma attira curiosità da grande prima, col Teatro traboccante e magnetizzato, e che irretisce nello scatto circolare, da orologio, il nome che subito affiora è quello di Luca Ronconi. I cantanti-manichini erano suoi. E così gli oggetti di arredo, fedeli alla lettera, snaturati dal contesto.

E la follia organizzata. Emma Dante vi aggiunge un ammicco femminile, pungente e divertito. Ad esempio, l'invenzione del suicidio in massa delle pretendenti spose: tanto certe, ciascuna, di essere la prescelta, da presentarsi tutte insieme già coll'abito nuziale. Tra loro, dai gesti a manichino, il Don Ramiro fanciullesco ma coi capelli già candidi, sceglierà la Cenerentola di Serena Malfi, alta e morbida, e giustamente in total-black, misteriosa come una diva pop. Così per le neglette, che di nascosto hanno cercato di farla fuori a colpi di lupara (Palermo vive sempre nelle regie di Emma Dante) non resta che il suicidio. Una dopo l'altra e a tempo esatto su Rossini.

In abito nero, con bracciale alla caviglia, Cenerentola è finalmente sola. Per tutto il resto dell'opera, invece, ruota intorno a lei un manipolo di “cenerentoline”, sue cloni: sono apparizioni, amplificazioni, scatenate dal Cenerentola vien qua, Cenerentola va' là delle due ossessive sorelle, che la vogliono come turbine tuttofare. Le cinque “cenerentoline”, che provengono dalla scuola della Dante, portano una chiavetta sulla schiena, come giocattoli a molla. Pupazzetti meccanici, trovano un corrispettivo nei cinque (per forza) “principini”, filiazioni di Don Ramiro. Anche loro con chiavette. E potete già immaginare che faranno nel finale, già ben così predisposti in coppie. Non potreste invece immaginare il contrappasso sui cattivi – tocco da fiaba da non svelare – che in verità sono irresistibili e comici, proprio perché non presi nell'ingranaggio meccanico della bontà.

Non allineata, e giustamente non lineare, la regia fa di Cenerentola non la solita canzone, grazie anche alle scene di Carmine Maringola e ai costumi di Vanessa Sannino, originali e astratti. La compagnia di canto è magnifica, capitanata dalla olimpica Serena Malfi, di bel registro scuro e puntigliosa nello smeriglio delle colorature. Juan Francisco Gatell non osa come Florez (e forse potrebbe), ma possiede una tinta assai preziosa, nobile, dall'eco infantile ideale. Le due sorelle, Damiana Mizzi e Annunziata Vestri, si incattiviscono in crescendo, aizzate dal vero perno dell'opera che è il buffo Alessandro Corbelli, Don Magnifico irresistibile, dal sillabato immacolato e babbucce col pon-pon. Alla pari gli sta accanto il Dandini di Vito Priante, coi boccoli in testa e di presenza vocale importante. Meno definito il ruolo di Alidoro, affidato a Ugo Gagliardo, doppio di Marko Mimica, alla prima ammalato.

Il Coro, qui solo maschile, commenta leggero e dettagliato, secondo la scuola di Roberto Gabbiani. Unico punto debole l'Orchestra, un po' in sordina, timorosa e trattenuta. Affidata al debuttante Alejo Pérez, argentino, è sembrata autogestirsi, e dunque prudente, mentre dal gesto uniforme del direttore latitavano idee su Rossini e musica.

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