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Guerra civile a Palermo

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Guerra civile a Palermo

Un’enciclopedia del 2090, probabilmente, scriverebbe così:
«Circa cento anni fa, al tramonto del Novecento, una media città europea fu sconvolta da un massacro rimasto incomprensibile. In una guerra civile che opponeva fratelli a fratelli, migliaia di persone si scannarono, in particolare dal 1981 al 1986, raggiungendo livelli di crudeltà impensabili. Poi, dopo un gran finale pirotecnico, quale il Continente non aveva mai visto dai tempi della Seconda guerra mondiale, la festa di sangue terminò. La città divenne di nuovo normale. I protagonisti di quegli avvenimenti, prima o poi, morirono tutti senza parlare, o persero la memoria. Diversi processi per decenni si trascinarono stancamente, nell’indifferenza».

I mille morti di Palermo di Antonio Calabrò è un libro dai molti meriti. È il primo - che io sappia - a dare un quadro d’insieme di quegli eventi, e a farlo con l’occhio lungo dello storico e il piglio dell’antico cronista (Calabrò, oggi scrittore e organizzatore culturale, è stato in gioventù un reporter del glorioso quotidiano «L’Ora», e passò la guerra correndo da cadavere a cadavere con il taccuino in mano); nel libro ci sono i fatti, messi in ordine, perché anche la ferocia ha una logica; e c’è un background (spesso dimenticato o non considerato) che offre spunti, sinapsi, domande, alla ricerca di una ancora difficile spiegazione generale.

Come oggi si sa, ma allora non era chiaro, i mille morti furono provocati da una spettacolare e “totale” guerra di mafia. Ad attaccare furono i “corleonesi”, di estrazione contadina, stufi dei privilegi dei “cittadini” e del loro uso dei bottini di guerra. Ambedue le fazioni fecero schierare i rispettivi cugini americani, cui erano legati da antiche genealogie, ma soprattutto dal colossale business dell’eroina, sicuramente il maggior contributo alla creazione del Pil italiano dell’epoca. (A pag. 88 ho trovato – cadavere – un tale Ciccio Mafara che da solo faceva 350 miliardi, cifra per cui all’epoca si entrava nella classifica di «Forbes»). Il livello di armamento dei corleonesi si alzò dalle pistole agli AK 47, le autobomba, i bazooka e l’esplosivo; i “cittadini” cercarono di contrattaccare, ma non riuscirono a fare granchè. Ucciso subito il loro capo, Stefano Bontade, si rivolsero allora all’ “uomo che risolve i problemi”, il misterioso Tommaso Buscetta. Richiamato dal Brasile, questi non riuscì però a fare molto; anzi, sentendosi braccato, si consegnò alla polizia italiana e (soprattutto) alla Fbi americana. Grazie a lui, un gruppetto di pochi magistrati riuscì a imbastire il maxi processo e a scoprire che la situazione era peggiore dei peggiori sospetti. Cosa Nostra dominava larghe fette del potere economico, politico e finanziario italiano e si teneva in saccoccia la Corte di Cassazione. Come finì? I corleonesi vinsero le loro battaglie, ma persero la guerra e si ritrovarono all’ergastolo. Il finale di partita – quello su cui si stanno svolgendo gli stanchi processi - coincise in Italia con il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.

Calabrò ricostruisce gli avvenimenti con ammirevole precisione e senza sposare versioni unilaterali delle parti in guerra. Restituisce, per esempio, il clima di incertezza sulle cause della prima sventagliata di morti – sconosciuti vecchi mafiosi di periferia e di campagna -, l’imbarazzo (e la sottile paura) del potere politico coinvolto, per un quadro che era sfuggito al loro controllo. Non ci si stupisca troppo: a quei tempi, l’anziano magistrato che il Csm votò perché prendesse il posto di Giovanni Falcone (“troppo protagonista”), era uno che seriamente pensava che quello che stava succedendo a Palermo fosse un fenomeno folkloristico, frutto di rissosità di bande locali.

Calabrò ricorda anche le divergenze politiche di allora. E sono notizie non da poco. Il segretario della Dc, Ciriaco De Mita, in aperta collisione con Andreotti e apertamente combattivo contro la mafia; la corrente “morotea” isolana, rappresentata da Piersanti Mattarella, duramente colpita. Il vicerè Salvo Lima (deliziosa l’immagine della sua prima apparizione in smoking, nel 1959) che tentò anche l’apertura al Pci. Sul fronte dell’economia, si ammazzavano sette persone in un cortile per questioni di macellazione clandestina dei cavalli, così come si ammazzavano industriali onesti e coraggiosi: non solo Libero Grassi, ma anche Roberto Parisi, Pietro Patti, Francesco La Parola, Francesco Semilia, Donato Boscia, Luigi Ranieri; il contrattacco dello Stato venne affidato al romantico tentativo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (chiese al console americano di farsi vedere a passeggio con lui) o alle iniziative coraggiose di alcuni funzionari della polizia di Stato (Cassarà, Montana, Calogero Zucchetto, Boris Giuliano), che, però, dovevano guardarsi dai loro dirigenti; la Banca d’Italia fece finta di non vedere il flusso finanziario originato dalla droga, che alimentava la guerra, né la stranezza della più povera provincia italiana, quella di Trapani, che vantava depositi per 1.500 miliardi di lire. Ma così era l’Italia allora: spensierata nei suoi anni Ottanta, assolutamente insensibile allo scannamento quotidiano che si svolgeva in Sicilia. Cosa Nostra, peraltro, ci teneva a una certa riservatezza e se qualche giornalista riusciva a rompere il muro dell’omertà, veniva punito con la morte. Si arrivò persino ad attentare alla vita del più popolare intrattenitore televisivo per famiglie, il pacioso Maurizio Costanzo: nel centro di Roma saltò in aria un’autobomba e lo mancò di un soffio.

A tanti anni di distanza, bisogna davvero ringraziare Calabrò per il lavoro compiuto. Semplicemente leggere l’interminabile elenco di morti, i brevi ritratti di vittime e killer, i paesaggi dei delitti con le donne che lavavano a secchiate il sangue dai marciapiedi, fa ricordare che gli eventi più terribili possono nascere nella distrazione dell’opinione pubblica, crescere per ignavia, dilatarsi fino all’estremo e poi… E poi essere semplicemente dimenticate.

A Palermo non si uccide più nessuno (nessuno che valga la pena di riportare, si intende) da ventiquattro anni. L’incredibile storia che abbiamo appena finito di leggere rimanda a tempi antichi, di quando c’erano la lira, la Democrazia Cristiana e il Senato non era messo in discussione. Ma com’è, allora, che la sentiamo così attuale?

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