Cultura

Palcoscenico del Novecento

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Palcoscenico del Novecento

  • –Giulio Busi

Alcune città cominciano sulla terra, e non si sa bene dove finiscano. Gerusalemme, per esempio, si estende di sicuro in alto. In alto quanto? Almeno fin oltre il cielo. È la Gerusalemme celeste, che da millenni fluttua oltre il limite degli sguardi, ben al di sopra di colline, cupole, minareti. Anche Berlino non sembra aver mai termine. Ma è smisurata in un altro senso, come un cerchio che svanisca ai bordi, inghiottito dalla distanza. Prendete la macchina, in una notte d’inverno, e cercate di raggiungere la periferia estrema. Viaggerete per trenta, quaranta chilometri, prima di oltrepassare le linea del buio completo. Alberi, case, laghi, fabbriche che paiono abbandonate, scoppi di luci, voci attutite in distanza. Non lasciatevi sviare dal cinema. Il cielo sopra Berlino, a cui Wim Wenders ha per sempre legato questo paesaggio, è un palco da cui gli angeli si sporgono e cadono. Non ci si regge in piedi, in bilico lassù. Lo spettacolo da vedere è tutto qui in basso, e qui bisogna rimanere se si vuole comprendere questa antica figlia di acquitrini. Berlino tutta terrena, interrata di storia, incrostata di fraintendimenti.

Beda e Sergio Romano hanno preso carta e penna - un tempo si diceva così, ora chissà quali tasti avranno battuto, o meglio sfiorato - per descrivere umori e malumori di Berlino capitale. Tanto per cominciare, capitale di cosa? Marca di Brandeburgo, regno di Prussia, Terzo Reich, Repubblica Democratica Tedesca, e, dal 1999, Repubblica federale - non c’è quasi garbuglio politico tedesco degli ultimi secoli che non sia venuto a ingarbugliarsi ancor di più da queste parti. E tenete conto che siamo un bel po’ a oriente: l’attuale confine con la Polonia scivola lungo il fiume Oder, a soli settanta chilometri. Geografia eccentrica, una certa spocchia, la sproporzione cronica tra ambizioni e realtà, sono i peccati che i tedeschi di provincia (ovvero tutti, tranne i berlinesi, almeno nell’opinione di questi ultimi) imputano alla loro più grande e popolosa metropoli. “Berliner Schnauze”, ovvero “grugno berlinese” è l’espressione con cui si usa definire una certa proverbiale strafottenza, o faccia tosta locale, un misto d’inflessioni dialettali, umorismo un po’ sboccato e insofferenza per le buone maniere. Come nota il più giovane dei Romano, all’avvio del volume, Berlino sconta un tradizionale mal amore. Per dirne una, Konrad Adenauer, il padre della Germania del secondo dopoguerra, proprio non sopportava la Prussia, e si sentiva qui «come un rifugiato». Una ruggine di vecchia data, se è vero che già Goethe definiva i berlinesi «una razza impertinente dell’umanità». A detta di Theodor Fontane, lo scrittore ottocentesco che pure veniva dalla vicina Neuruppin, in Brandeburgo, il vizio della capitale sarebbe la sua eccessiva dedizione agli affari, una sorta di invincibile materialismo: «Questa grande città non ha tempo per pensare. Peggio non ha tempo per la felicità». Berlino infelice? Provate a fare un giro, la sera, per le migliaia di ristoranti e osterie, per le discoteche o i pub, e vi dovrete convincere che quando la si vuol definire, e catturarne per così dire l’anima, questa dispettosa trasformista vi risponde con uno sberleffo. Difficile immaginare serate tanto movimentate come quelle che s’accendono in riva della Sprea, posto che voi il movimento lo vogliate e lo cerchiate. Berlino felice, allora, con buona pace di Fontane? Pensate alla desolazione del maggio 1945, alle macerie, alla vergogna del muro, a quella “topografia del terrore” che qui lega indissolubilmente nazismo e urbanistica.

Felice a tratti, spensierata a fatica, inquieta sempre. E poi «troppo vasta, troppo cosmopolita, troppo giovane» per poter essere davvero cuore della Germania. E se non è mai riuscita a essere cuore del Paese, Berlino non ha mai perso la speranza di diventarlo un giorno. C’è qualcosa di laicamente messianico nel destino di una città «condannata a sempre divenire e a non essere mai». Questa frase, posta da Karl Scheffler a chiusa di un suo libro su Berlino, ne è la più celebre e più azzeccata profezia. Era il 1910, uno dei momenti di maggior splendore di tutta la storia berlinese, eppure per Scheffler, critico d’arte ed entusiasta dell’impressionismo locale, l’anima della metropoli restava indistinta, rabbiosamente kitsch. Che anima volete che abbia una «città delle conserve, delle verdure in lattina, della salsa universale» (Schaeffler dixit)? Se era una vocazione messianica, si realizzò in maniera sincopata e distorta. Pensate a Walter Benjamin, o a Gershom Scholem, due grandissimi berlinesi, amici tra loro e appassionati teorici di messianesimo. Dalla Berlino che sempre ricomincia e mai si completa al messia mistico e filosofico il passo non dovette per loro essere poi così lungo. Mentre Beda si addentra nel labirinto archittettonico, artistico e commerciale, Sergio Romano segue ascesa, caduta e rinascita di Berlino. Dati, date, guerre, miracoli e miserie alla mano, ne vien fuori, più che il profilo di una sola città, l’affresco di una certa Europa, con i suoi momenti di fortuna e quelli di abissale caduta. Certo, la storia si è fatta e decisa anche altrove, a Mosca e a Parigi, a Londra e a Roma, eppure è qui che il Novecento ha inscenato alcuni episodi emblematici. Dal militarismo guglielmino alla fallita rivoluzione del 1918-19, dall’assassinio di Rosa Luxemburg all’incendio del Reichstag del 1933, dalle Olimpiadi del 1936 alla conferenza del Wannsee, nel 1942, sullo sterminio totale degli ebrei, Berlino è palcoscenico e dannazione di un continente aggressivo e autodistruttivo. Il blocco sovietico del 1948-49, il muro nel 1961, ma anche il dissolversi della DDR e la riunificazione, chi ha scritto la sceneggiatura, chi ha dosato con sapienza tinte cupe e scatti d’orgoglio e di redenzione? Non sappiamo chi sia il coreografo di questo spettacolo che ci lascia spesso increduli. Possiamo solo ripercorrere le strade, cercare i luoghi che fecero da sfondo alla storia. O quelli in cui la storia si svolge oggi. Ognuno può trovare una propria Berlino, giacché quelle a disposizione sono quasi infinite. «La maggior parte della città sembra costruita la settimana scorsa, e il resto, appena più serio e compassato, potrebbe essere stato costruito sei sette mesi fa». Se questa è anche la vostra impressione, siete in buona compagnia. Così scriveva, e si stupiva, Mark Twain nel 1892. Iperboli da americano in Europa, certo, ma non vi sembra che anche lei, Berlino, sia iperbolica? Non alzate gli occhi al cielo, se la volete capire.

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