Il 5 febbraio scorso la severa, composta, opulenta Zurigo si è svegliata con un nuovo volto: quello, beffardo e canzonatorio, di Dada. A cento anni esatti dalla sua fondazione nel Cabaret Voltaire, la città festeggia l’anniversario di quell’evento - allora guardato con sospetto, se non con fastidio - con una kermesse che di qui ai prossimi mesi la travolgerà interamente: musei e istituzioni pubbliche, teatri, sale da concerto e, ovviamente, il Cabaret Voltaire, riuniti fino al 26 giugno nel Festspiele Zürich, ma anche le tante librerie della città, con le loro vetrine di titoli dada, tutti, nella Zurigo del 2016, celebrano la creatività “corsara” di quel gruppo d’immigrati geniali, provocatori e squattrinati che confluirono in città, in fuga dal massacro della Grande guerra.
Che quegli intellettuali bohémien fossero invisi, allora, ai placidi borghesi di Zurigo non stupisce: tutti stranieri (salvo la svizzera Sophie Taeuber, poi moglie di Hans Arp), quasi tutti senza un vero lavoro, i dadaisti erano tanto chiassosi da aver fatto nascere la diceria (forse una leggenda metropolitana, verosimile però) che Lenin, alloggiato poco oltre il Cabaret Voltaire e alquanto affaccendato nell’organizzare la Rivoluzione russa, protestasse per il frastuono che usciva dallo stanzone dove loro, del tutto indifferenti alla politica, decostruivano la lingua declamando sequenze di suoni insensati, esponevano deliranti collage e cantavano, suonavano, danzavano brani musicali urticanti per il resto dell’umanità. Si sentivano, del resto, come “iniziati” e a bella posta avevano scelto un nome senza senso (il cavalluccio di legno dei francesi? Il «sì» dei russi? nessuno lo sa), che però suonava bene in tutte le lingue.
Era stato Hugo Ball ad affittare il locale al primo piano di Spiegelgasse 1, a Niederdorf, vecchio quartiere allora scalcinato e poi invece tanto cool che nel 2002 si rischiò che la sede del Cabaret diventasse un condominio di lusso. Con lui c’erano la compagna Emmy Hennings e Tristan Tzara (Samuel Rosenstock), Marcel Janco, Sophie Taeuber, Hans Arp: lo intitolarono a Voltaire, in nome del loro orrore per quella guerra insensata che stava macellando l’Europa e gli europei.
Che cosa opporre a tanta follia, se non il sarcasmo, lo sberleffo, la distruzione dei codici verbali, artistici e di costume della società borghese, motore di quel massacro? Eppure, non solo la loro anti-arte diventò presto vera arte ma da Zurigo s’irradiò nel resto d’Europa e negli Stati Uniti e dopo i Surrealisti influenzò (oltre al ’68) moltissimi linguaggi successivi, dal situazionismo alla performing art, da Fluxus al punk, fino a oggi. Dada, del resto, è un modo di essere, è uno «spirito»: «Prima del Dada c’era il Dada» dicevano loro, sicuri che il loro spirito avrebbe scavalcato i secoli, così come a loro arrivava dal passato.
Due le mostre che si sono aperte a Zurigo il 5 febbraio: Dadaglobe Reconstructed al Kunsthaus (fino al 1° maggio) e Dada Universal al Landesmuseum (fino al 28 marzo). Poi toccherà a Dada Afrika, dal 18 marzo, al Museum Rietberg, e alla retrospettiva di Francis Picabia, al Kunsthaus, dal 3 giugno.
Dadaglobe Reconstructed è il frutto di sei anni di lavoro della studiosa newyorkese Adrian Sudhalter, che ha dato corpo, quasi un secolo dopo, a un sogno irrealizzato di Tzara e Picabia: ha infatti ricomposto il volume Dadaglobe, ideato nel 1920 dal primo e finanziato dal secondo (fino al litigio che li separò, segnando le sorti del progetto), che si proponeva come la summa della creatività dadaista. Viaggiare era difficile dopo la guerra e i due, da Parigi, scrissero a 50 compagni d’avventura sparsi nel mondo (Aragon, Arp, Breton, Cocteau, Duchamp, Max Ernst, Man Ray…), chiedendo d’inviare una loro fotografia («solo la testa, anche rielaborata ma riconoscibile», si raccomandavano nelle lettere, in mostra) e lavori su carta, poesie, pensieri, da comporre nel libro.
Di quel volume resta una sorta di scarno menabò di Tzara e la curatrice, rintracciando laboriosamente gli originali dispersi nel mondo dopo la sua morte e ricomponendoli secondo i suoi appunti, lo ha di fatto «ricostruito» (e pubblicato), restituendo a quel progetto tanti materiali visivi e poetici già noti ma di cui non si conosceva la destinazione originaria, e trovandone di inediti, come i lavori degli italiani Julius Evola, Egidio Bacchi, Gino Cantarelli.
Nulla di rumorosamente “celebrativo” dunque: racchiusa com’è in un’unica sala e gremita di testi, fotografie e piccoli lavori su carta, questa è una mostra da assaporare con lentezza, per godere dei suoi tanti sortilegi visivi e intellettuali. Ed è una mostra che, con il suo catalogo (Scheidegger & Spiess), resterà come una pietra miliare negli studi sul dadaismo.
Più spettacolare è Dada Universal, curata da Juri Steiner e Stefan Zweifel. Qui, in una grande sala oscura s’inseguono teche vetrate in cui le “icone” dadaiste dialogano liberamente: c’è il dodo, uccello estintosi perché “senza senso” (non sapeva volare) e perciò così amato dai dadaisti, e c’è Fountain (1917-1964), l’orinatoio firmato «R.Mutt» che Duchamp inviò all’Armory Show di New York del 1917, con tutta la sua carica di eversione (concettuale). Ci sono le protesi degli invalidi e le maschere a gas, simbolo atroce della guerra, e le maschere africane, le marionette di Sophie Taeuber e decine di ready-made, assemblaggi, collage, lettere, fotografie, poesie, filmati che, in un’esperienza emozionale, immergono il visitatore nel caleidoscopico universo dadaista.
© Riproduzione riservata