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Reinventare Moby Dick

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LETTERATURA

Reinventare Moby Dick

Non sparate sul pianista, verrebbe da dire parodiando uno di quei gialli da quattro soldi che negli anni ’50 deliziavano il pubblico, e non solo in America. Se poi l’interprete alla tastiera (del computer) è un traduttore di vaglia che ha affrontato l’impresa di volgere in italiano nientemeno che il Moby Dick di Herman Melville, va sicuramente messa da parte la matita rossa e blu che gli sceriffi della carta stampata impugnano sempre come un revolver.

Anche perché, a partire dalla storica ed eroica traduzione di Cesare Pavese (Frassinelli, 1932 e 1941; Adelphi, 1987), con questa di Ottavio Fatica che è uscita nei Supercoralli di Einaudi, le versioni italiane hanno ormai superato la dozzina ed è pertanto da escludere che avanzi qualche sfondone da additare al ludibrio della folla sulla pubblica piazza.

Rimanendo avvertiti che a inficiare la qualità di una traduzione non sono le sviste e gli errori (sempre emendabili da un qualsiasi revisore in cabina di regia), resta da chiedersi se di una nuova versione si sentisse la mancanza; e la risposta, visto che per rileggere un’opera come Moby Dick tutte le scuse sono buone, non può che essere affermativa. Soprattutto perché il librone di Melville, che in catalogo ce l’hanno si può dire ormai quasi tutti gli editori, era assente proprio nella collana di narrativa della Einaudi, la cui iniziale fortuna – anche nell’immaginario collettivo – è da sempre legata all’opera del suo primo estimatore in Italia, e cioè Pavese.

Ho frequentato abbastanza convegni e seminari per sapere che le versioni da una lingua a un’altra sono di due tipi. Quelle in cui il traduttore si mette al servizio del lettore e lo accompagna a destinazione come un tassista; e quelle, invece, in cui il traduttore si fa protagonista e compete con l’autore con alzate d’ingegno (non sto usando, si badi, questa espressione in senso antifrastico) che, per dirla con Montale, lo fanno talora scomparire alla vista di «noi della razza di chi rimane a terra».

Un esempio. Appartengono al primo gruppo, forse perché portati a cercar di farsi sempre capire in quanto erano entrambi professori, sia Nemi D’Agostino sia Ruggero Bianchi, che hanno volto Moby Dick in italiano rispettivamente per Garzanti nel 1966 e per Mursia nel 1993; per non parlare della versione di Cesarina Minoli (Utet, 1958), ripresa negli Oscar Mondadori nel 1986, dopo una sostanziale revisione di Massimo Bacigalupo. Ottavio Fatica, così come in parte – ma solo in parte – Cesare Pavese, appartiene invece al secondo gruppo. E, prendendo a prestito un aggettivo da Harold Bloom, si potrebbe dire che è un traduttore «agonista», cioè uno scrittore in proprio che in luogo di un frammento di realtà – un paesaggio, una figura, uno stato d’animo o una battaglia – sceglie come argomento una rappresentazione già esistente di quel frammento e lo riscrive ammiccando non tanto al lettore quanto all’autore stesso e ai suoi interpreti.

Ora, Moby Dick è sì, come nelle edizioni ridotte che scorrevamo da ragazzi, anche un libro di avventure; ma, soprattutto, non è quel pastrocchio che credevano molti dei suoi contemporanei; e, da quando è stato riscoperto – negli anni ’20 del ’900 –, i suoi esegeti, grandi e piccoli, non hanno mai smesso di sottolinearne la valenza simbolica e metafisica. È pertanto da considerarsi un classico e come tutte le opere che vengono da un altro mondo ha bisogno di un buon numero di informazioni suppletive a piè di pagina o in fondo al testo: cosa a cui hanno puntualmente provveduto i curatori delle edizioni più recenti, da Bianchi a Bacigalupo, e da Alessandro Ceni – che ha pure incluso un indice dei termini marinareschi e nautici, nella sua versione per Feltrinelli (2007) – fino a Giuseppe Natali (Utet, 2010), il quale ha potuto avvalersi della rivoluzionaria Longman Critical Edition (2007), a cura di John Bryant e Haskell Springer, che mette a confronto la prima edizione inglese e la prima edizione americana, pubblicate a distanza di un mese nel 1851.

Va anche detto che delle due l’una, per quanto riguarda un libro come Moby Dick: o il traduttore ricorre a un certo numero di «elementi esplicitanti» per far capire al lettore, magari con una parolina in più rispetto al testo originale, di che diavolo si sta parlando in certi frangenti; oppure deve permettere al lettore stesso di arrestare la corsa e aiutarlo a orientarsi, per fare un esempio, in mezzo alle infinite allusioni astrologiche su cui è impostato un capitolo come Il doblone. A differenza degli spot pubblicitari che spezzano il ritmo di un film, infatti, le note – non i commenti! – che accompagnano un romanzo complesso e ambizioso come Moby Dick sono indispensabili per rifocillare la mente.

Chi affronti la traduzione di Ottavio Fatica deve essere invece pronto a regolarsi da solo. Il suo Moby Dick è infatti un giardino delle delizie (lessicali), al modo in cui può esserlo uno di quei cruciverba che le riviste di enigmistica definiscono «per lettori esperti». La lingua di Fatica è lontana le mille miglia dall’italiano omogeneizzato che è ormai corrente nelle versioni un tanto al chilo di certi traduttori sottopagati, ma la si può delibare soltanto a piccole dosi. Sapida e variopinta, produce una prosa arcaicizzante – anticata –, che sembra intesa alla messa in opera di una sorta di ingegnoso falso d’epoca. Non fosse per alcune aperture gergali che appartengono al nostro secolo, il Moby Dick di Fatica – con quell’«inguattato» che sta per «nascosto»; le fiamme che «forcheggiano» come non avveniva dai tempi dell’Aretino e la «grascia» che cola un po’ dappertutto al posto del «grasso di balena» – sembrerebbe scritto da un autore toscano contemporaneo di Melville.

Non solo. Al lettore di terraferma potrebbe addirittura venire il mal di mare con tutte quelle parole del gergo navale. Anche perché, rispetto agli altri traduttori – e qui mi riferisco a Bianchi, Ceni e Natale, che sono i più rigorosi per quanto attiene al linguaggio tecnico – Fatica sceglie sempre il meno consueto e comprensibile tra i sinonimi: «alighiero» per «gancio di accosto»; «tura» per «cassone d’ormeggi»; «arriva», che peraltro non è un verbo ma un avverbio, in luogo di «a riva» («aloft») che vuol dire «in testa all’alberatura», e così via. Talché il ricorso al dizionario, o a Google, diventa una necessità continua.

Intendiamoci, la versione proposta da Fatica è un monumento linguistico barocco – cioè, melvilliano! –, che talora attinge vette di straordinaria efficacia, come quando va a pescare un termine botanico qual è «catorzoluto» per descrivere i peli aggrovigliati della barba del capitano Ahab; oppure «ammorsato» per designare l’ancoraggio di un pesante mortaio; «sgottamento » in luogo di un semplice «svuotamento» per rappresentare il lento fluire dello spermaceti dalla botte; oppure la locuzione «i masconi del pulpito» in luogo di un più semplice «la prora del pulpito», perché in Melville (« bows ») è indicato al plurale.

Ottavio Fatica non sembra peraltro immune da attacchi di logofilia, un morbo dannunziano che porta lo scrittore a mettersi le ghette ai piedi e a usare parole come «svèlto» per «divelto», «nauta» per «marinaio», «sèrpere» per «strisciare», «putre» per «putrido», «sonnacchioso» per «assonnato», «illimite» per «sconfinato», «ricciola» per «ricciuta»; e anche «ritegnoso», «redolente», «insino», «rabesco», «nervuto» e «fulgente»: il tutto intercalato da elisioni come «dietro ’l vetro» e «aveva messo l’ali», che fanno tanto teatro d’opera

Ciascuno veste e scrive come gli pare e dunque niente matita rossa e blu. E tuttavia un paio di errori voglio segnalarli. Il primo è dello stesso Melville che nel cap. 45 parla di tigri in Africa ( e solo D’Agostino e Ceni mostrano di essersi accorti dello sfondone), mentre il secondo è «babordo e tribordo» (per «a sinistra e a dritta»), che è un calco dal francese usato da Salgari e nelle versioni italiane di Verne, e sembra fatto apposta per dimostrare che anche il più marinaresco dei traduttori, come gran parte degli studiosi di Melville, è soltanto un topo di biblioteca che si nutre di libri e non un lupo di mare.

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