Cultura

La metamorfosi di Giudici

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letteratura

La metamorfosi di Giudici

Come si diventa poeta? Quando? E c’è un inizio? Stabilirlo è forse impossibile. Testimonianze dirette del percorso compiuto, “appunti di strada” sono assai rari. D’Annunzio e Marinetti, forse, tra i moderni, sono i più illustri esponenti di questo inclassificabile genere, come mostrano i loro numerosi taccuini, piccoli, a volte minuscoli cantieri di idee e di situazioni (su questo ha fatto di recente belle indagini Stefano Bragato, a Reading). Ma D’Annunzio e Marinetti sono casi a sé. La regola vuole che il poeta non conservi cose provvisorie, insufficienti, cose che avranno senso solo dopo. Quasi sempre, pertanto, per sapere come tutto iniziò dobbiamo affidarci ai suoi racconti di un’epoca successiva. Il poeta che narra la sua storia, però, non ci dà la storia, ma una ricostruzione, che, come vogliono le regole del ricordare, esclude il casuale e il circostanziale e non considera alcunché di ciò che non è in grado di richiamare alla memoria.

Ecco perché le notazioni dei poeti sono preziose. Lì, se le parole non hanno subito aggiustamenti di un secondo tempo, troviamo una copia diretta del divenire; e quella copia è, come una decalcomania, tutt’uno con l’atto del muovere la penna, anzi: è quella penna, è quella carta; è “momento grafico” in sé, tempo salvato e trasportato nel futuro senza danni o aggiunte.

Si capisce che la scarsa commerciabilità releghi materiali così crudi ad archivi o a pubblicazioni per specialisti. Peccato. Tanto più oggi si ha bisogno, invece, di mettere davanti agli occhi di tutti le prove, se esistono, del lavorio di una mente creatrice. Il concetto di creazione verbale, infatti, nella nostra era del consumismo di ogni specie e dell’egoismo seriale è decaduto a fossile romantico; quello di stile a mito risibile. L’artista è morto, perché dell’arte ci si fa un baffo. Pochissimi ormai credono che gli artisti siano i simboli della più profonda umanità di ciascuno. Loro stessi hanno smesso di dichiararlo.

Con grande soddisfazione, allora, vedo pubblicare i taccuini e i quaderni di un poeta come Giovanni Giudici, che vanno dal 1949 al 1961, anni in cui Giudici si stava cercando. La soddisfazione è accresciuta dal fatto che il volume che raccoglie i taccuini e i quaderni, Giudici: ovvero le fondamenta dell’opera, non è un’edizione critica o accademica, ma un numero della rivista “istmi”, diretta da Eugenio De Signoribus, Enrico Capodaglio e Feliciano Paoli (www.istmi.it), la quale ha già prodotto due ghiotte monografie giudiciane: Agenda 1960 e altri inediti (2009) e Prove di vita in versi. Il primo Giudici (2012). Il lavoro di trascrizione dei taccuini e dei quaderni si deve a un team di giovani esperti, che si sono dati ciascuno una porzione cronologica: Teresa Franco, Linn Settimi, Marta Gas, Stefania Siddu, Claudia Murru, Stefano Marangoni e Carlo Londero. Ogni sezione è preceduta da una breve nota del trascrittore stesso, che riassume motivi e contenuti, e seguìta da alcune note esplicative, anche queste del trascrittore. Il volume è prefato da Carlo Londero e chiuso da una nota di Rodolfo Zucco, già curatore del Meridiano e autore di numerose studi sull’opera di Giudici. In appendice appare un saggio di un’altra giovane studiosa, Caterina Paoli (pure lei, come Teresa Franco, basata a Oxford), su una traduzione dell’Orestea, ancora inedita, che Giudici eseguì negli anni dell’Università. Suggella il tutto un’immagine dell’artista Ruggero Savinio.

Del Giudici pubblicato non mancano proclami, dichiarazioni di poetica, autocommenti. Molte delle sue cose più belle sono proprio i saggi di argomento “autobiografico”. Quando, come adesso, possiamo portare gli occhi e gli orecchi sulla fase pre-istorica (comunque non mai accertabilmente aurorale in senso assoluto) constatiamo non senza un senso di vertigine quanto ci sia voluto perché la coscienza del poeta maturo potesse arrivare a esprimersi con sicurezza e ad avere una sua visione. Questo specialissimo numero di “istmi” raccoglie i residui di spasmodiche curiosità. La dimensione “amatoriale” prevale. Non si conoscessero libri come La vita in versi o Quanto spera di campare Giovanni si faticherebbe qui a riconoscere il loro autore giovane. Ma alla fine, si tratta dello stesso autore? Nei taccuini e nei quaderni non sentiamo propriamente ancora l’autore, ma l’uomo che vuol diventare autore. Una scrittura come questa, fatta di frustoli, di cancellature, di frasi monche, di grumi discorsivi quasi involontari, ci mette davanti perfino con arroganza la necessità di distinguere tra persona e artista. C’è, però, anche la confusione tra i due, confusione che, se è riprovevole nella bocca dei lettori, non può affatto esserlo nella mente di chi in quella confusione cresce e addirittura, come appunto Giudici, è destinato a trovare una sua identità: poiché il poeta finalmente adulto non smetterà di giocare con le maschere dell’individuo privato.

Di che cosa parla Giudici in queste pagine? Di tutto: di politica, di religione, di società, di letteratura. Nomina persone, note e no; incontri casuali, donne; butta giù versi, li copia e ricopia (e alcuni troveranno la strada della pubblicazione). Insomma, annota pensieri e ipotesi, si fa molte domande sul senso dello scrivere, osservando un mondo putrido e indifferente; si dà obiettivi (come una poesia che sia anche narrazione); critica i libri letti, che appartengono alle tipologie più varie; fa osservazioni e collegamenti critici (accosta, per esempio, la Lucia di Manzoni al Zhivago di Pasternak). Si registrano già presenze che resteranno punti fermi fino all’ultimo: Montale, Eliot (su cui la stessa Franco, trascrittrice dei primi tre quaderni, ha in arrivo uno studio specifico), Pound. E si nota anche l’influsso di auctoritates come Pascal o i Vangeli. Molte le citazioni, spesso senza fonte. Eliot in abbondanza, ma anche, a sorpresa, un Tito Livio o un Barthes. Colpisce l’apertura di Giudici verso tutto e tutti. La sua mente si confronta con l’altro senza supponenza e pregiudizi, con rispetto e serietà.

Ora ci si aspetta che tanta ricchezza di suggestioni da una parte riempia di ammirazione il lettore di poesia e dall’altra ecciti lo specialista ad approfondimenti e chiarimenti. Ci si augura pure che libri così, se la fortuna è stata salvatrice, continuino a uscirne, magari corredati di un indice analitico, di cui qui si avverte l’assenza, e spostando le note esplicative dal fondo delle sezioni a piè di pagina.

Giudici: ovvero le fondamenta dell’opera, Urbania, istmi tracce di vita letteraria, pagg. 508, € 30 (acquistabile sul sito www.istmi.it)

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