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La Riforma italiana

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storia e storie

La Riforma italiana

Della chiesa di san Paolo, nel centro di Napoli, avevano pensato bene di imbiancare i muri. «Hanno imbianchita la ecclesia dove de primo ce erano depinte molte figure de sancti et sancte». Volevano un luogo nudo e spoglio, dove frate Bernardino – il senese Bernardino Ochino, predicatore fra i più gettonati d’Italia – potesse spandere senza distrazioni la sua parola di pietà. Parola severa, tutta incentrata sulla passione e sul «beneficio» di Cristo: secondo le dritte che Ochino riceveva da Juan de Valdés, il gentiluomo spagnolo arrivato da poco in città. «Faceva professione di pigliare quasi il thema di molte sue prediche da Valdesio, mediante una carticella che lui li mandava la sera inanzi alla matina che doveva predicare».

Nella Napoli del 1536, si diceva che le prediche quaresimali di Ochino avessero toccato fino alle lacrime l’imperatore in persona, Carlo V d’Asburgo, di stanza in città dopo la vittoriosa spedizione di Tunisi. Sicuramente, il cuore di fra Bernardino era stato toccato dall’incontro e dagli scambi con Valdés. Quarantenne in fuga dall’Inquisizione di Spagna, dopo avere lavorato a Roma come agente segreto di Carlo V il carismatico hidalgo si era allontanato dagli intrighi della Curia per vivere a Napoli una vita tutta spirituale. Meritando agli uomini (e alle donne) della sua cerchia proprio quell’appellativo, gli «spirituali», che a lungo li avrebbe accompagnati dopo la prematura morte di Valdés: fino a quando l’Inquisizione di Roma non avrebbe riconosciuto in loro altrettanti eretici, e in quanto tali li avrebbe perseguitati, processati, costretti all’abiura o bruciati sul rogo.

Prima di scappare dalla Spagna, Juan de Valdés aveva respirato – negli anni Venti del Cinquecento – l’aria studiosa e rarefatta dell’Università Complutense, impregnata della lezione umanistica di Erasmo. Valdés era stato uno degli alumbrados: uomini (e donne) di riflessione e di fede, che con anticipo rispetto a un monaco agostiniano di Germania, Martin Lutero, avevano perorato la causa di un cristianesimo fondato sulla grazia piuttosto che sulle opere. Fondato sulla centralità, per l’appunto, del beneficio di Cristo, e sulla fede come strumento di libertà interiore, piuttosto che sulle gerarchie ecclesiastiche e sulle ordinate devozioni: elemosine e indulgenze, confessioni e messe, preghiere e rosari, digiuni e penitenze, voti e pellegrinaggi, Vergine e santi.

Ma a differenza di Lutero, Valdés e i suoi seguaci italiani si pensavano come uomini di compromesso piuttosto che di rottura. Anziché dichiarare guerra al papa, alla Curia, al Sacro Collegio, speravano di persuaderli, di infiltrarli, di cambiarli. E appunto questa loro speranza costituisce la materia del gran libro di Massimo Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento. Una sintesi delle ricerche pluridecennali che Firpo ha dedicato ai “terzisti” (potremmo dire) del XVI secolo. Ai cristiani che non volevano scegliere né l’ortodossia di Roma, né quella di Wittenberg o di Ginevra. Ai tolleranti in un secolo d’intolleranza. A coloro cui Valdés raccomandava di vivere in «pace con tutti, non inquietando [...] né facendo guerra a niuno».

Dopo la morte dello stesso Valdés, nel 1541, tutto sembra precipitare, condannando gli «spirituali» a un destino di dispersione e di fallimento. Nel 1542, sul modello dell’Inquisizione spagnola nasce l’Inquisizione romana, il tribunale del Sant’Uffizio. Allora – da vicario generale dei cappuccini – Bernardino Ochino sceglie clamorosamente la via della fuga oltre le Alpi, scappa nella Ginevra di Calvino. Lontano da Napoli come da Roma, lontano da un’Italia dove sembra avere già vinto la linea dell’intolleranza, della persecuzione, della Controriforma. E invece no. I giochi non erano fatti, tutt’altro. Dal 1542 al ’45, i sodali napoletani di Valdés organizzano una task force intorno al cardinale Reginald Pole, arcivescovo di Canterbury, per fare del concilio ecumenico che sta per aprirsi – il Concilio di Trento – il luogo della loro vittoria.

Manifesto degli «spirituali» in vista del Concilio è un bestseller passato alla storia come Beneficio di Cristo. Libretto dapprima circolante in forma manoscritta, poi pubblicato a Venezia nel 1543, e più volte ristampato in Italia come all’estero. Trattatello scritto in volgare, dunque accessibile ai meno colti, che senza toni di polemica declina la spiritualità erasmiana e valdesiana come la chiave di un compromesso per mantenere unita la Cristianità. Bestseller che passa di mano in mano, capillarmente, prima che l’Inquisizione – in anni, o decenni, di sforzo coordinato – riesca a identificarne tutti i possessori e a distruggerne tutte le copie. La prova provata, questo Beneficio di Cristo, di quanto le idee di riforma circolassero (con scandalo dei benpensanti) «tra le persone basse», «per le piazze, per le botteghe, per le taverne et insino per li lavatoi delle donne», in quello «sciagurato secolo» nel quale «infin i sarti, i legnaiuoli, i pescivendoli et l’altra feccia del vulgo» si permettevano di «disputare del misterio della predestinatione, de l’articolo della giustificatione», e di altre «ravviluppatissime questioni» che esulavano dal loro comprendonio.

Venezia, Bergamo, Mantova, Modena, Bologna, Ferrara, Firenze, Pisa, Lucca: tenendo dietro alla penna onnisciente di Massimo Firpo, il lettore scopre come la propaganda religiosa degli «spirituali» abbia permeato di sé l’Italia centro-settentrionale del pieno Cinquecento. Senza arrestarsi davanti a soglie di genere («questa impietà è seminata più per le femine che per gli huomini», denunciava un vescovo), e senza porre limiti alle proprie ambizioni politiche. Spingendosi fin dentro Roma, mirando al bersaglio grosso: se è vero che, nel conclave del 1549-50, soltanto per un voto il candidato degli «spirituali», Reginald Pole, si vide sfuggire il trono di Pietro.

Fu quello, il vero inizio della fine. L’anno dopo un oscuro prete marchigiano, Pietro Manelfi, consegnava agli inquisitori di Bologna i segreti della propaganda peggio che luterana – anabattista – ch’egli aveva condotto, sentendosi allievo di Bernardino Ochino, ai quattro angoli del Veneto, del Friuli, della Romagna. E Manelfi spifferava agli inquisitori i nomi di sarti e berrettai, calzolai e osti, cavadenti e barbieri, tintori e pellicciai, fabbri e maniscalchi, che insieme a medici e notai, parroci e insegnanti, avevano creduto possibile una Riforma italiana.

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