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Lav Diaz divide Berlino con «A Lullaby to the Sorrowful Mystery»

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Lav Diaz divide Berlino con «A Lullaby to the Sorrowful Mystery»

Era l'autore più atteso dai cinefili presenti a Berlino, il filippino Lav Diaz, grande autore che ha portato in concorso il suo ultimo lavoro, «A Lullaby to the Sorrowful Mystery».
Un film torrenziale, della durata di otto ore, che il Festival ha deciso di spezzare in due parti permettendo a pubblico e addetti ai lavori di fare una pausa di circa sessanta minuti.

In questo lungometraggio, che ha diviso critica e spettatori, Lav Diaz esamina il mito di Andrés Bonifacio y de Castro, colui che ha dato inizio alla rivoluzione filippina contro il dominatore spagnolo, negli ultimi anni dell'Ottocento.
Mentre il governatore cerca di sedare le rivolte, la vedova di Bonifacio si addentra sempre più nella giungla in cerca del corpo del marito.

Utopia, mito, colpe e responsabilità: sono soltanto alcune delle tematiche che porta avanti questo film complesso e stratificato, sublime e respingente allo stesso tempo.
Non tanto per il disegno complessivo, forse, quanto per le singole sequenze, «A Lullaby to the Sorrowful Mystery» soffre di una certa ridondanza e potrebbe essere accusato di maniera rispetto ai lavori precedenti dell'autore filippino (si pensi a «Melancholia» del 2008 o allo splendido «From What Is Before» del 2014, meritatamente premiato a Locarno col Pardo d'oro). Ma, seppur non rientri tra i titoli più importanti della sua filmografia, questa sua ultima fatica resta un'esperienza visiva impressionante, capace di affascinare grazie alla stupenda fotografia in bianco e nero (si vedano i magnifici giochi di luce) e a una narrazione anticonvenzionale e mai banale.
E, se il film parla anche del valore della libertà (rapportata più volte nel corso della visione alla storia dell'arte), è proprio il cinema di Diaz a essere liberissimo, lontano da qualsiasi schema o regola a cui siamo abituati a sottostare. E non soltanto per la lunghissima durata.

Una fotografia molto particolare, contrassegnata da colori desaturati, è anche quella di «United States of Love» di Tomasz Wasilewski.
Ambientato nella Polonia dei primi anni Novanta, in un momento in cui il paese stava cercando una nuova identità dopo il crollo del muro di Berlino, vede protagoniste quattro donne di un piccolo paese di provincia, molto diverse tra loro ma tutte costrette a un'esistenza che vorrebbero modificare.
Solitudine, depressione, rapporti interpersonali che non vanno a buon fine: «United States of Love» è un dramma che racconta una Polonia a cui il “cambiamento” non ha portato il benessere sperato.
Da tale speranza si passa presto alla disillusione in queste piccole vicende che, però, raccontano molto del momento storico di un'intera società.
Wasilewski gira con rigore, a volte riesce a toccare corde emotive profonde, altre volte molto meno, a causa di alcune scelte narrative poco credibili e decisamente sopra le righe.
Il risultato è un film che funziona a metà, indubbiamente capace di far riflettere ma anche privo di grandi guizzi da ricordare.

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